Bob Dylan
Affrontare l’opera di Bob Dylan esige rendersi disponibili a piani di comprensione tortuosi, a volte inestricabili, altre indecifrabili.
Bob Dylan non è soltanto il musicista che ha pubblicato poco meno di quaranta album in studio, una decina di live ed una ampia serie di dischi che periodicamente disvelano il suo archivio; è stato infatti anche regista, attore, scrittore, disegnatore, pittore, poeta, ha fatto parte della band Traveling Wilburys assieme a Roy Orbison, George Harrison, Jeff Lynne e Tom Petty. Attualmente, anche se non recentemente, una delle sue passioni consiste nell’assemblare e saldare tra loro, oggetti metallici tra i più disparati creando dei cancelli-scultura esposti con successo a Londra nel 2013. Il nome Bob Dylan è da anni idealmente, anche se non ufficialmente, segnalato per una nomination al premio Nobel per la letteratura, che dovrebbe premiare la sua attività di autore di testi che confinano e spesso sconfinano nella poesia.
Oggi Bob Dylan non persegue più il suo neverending tour, comunque è in tournée per buona parte dell’anno, continua ad incidere dischi con una cadenza quasi triennale, segue la stampa della “Bootleg Series”, una ormai lunga serie di pubblicazioni nelle quali raccoglie materiale in studio o live selezionato per periodi, per anni o per session. Da queste raccolte spesso emergono brani inediti, versioni alternative, cover o semplici provini che partecipano a definire un complesso e a volte controverso universo musicale congeniato, ideato e messo insieme dal più importante e significativo personaggio che abbia attraversato una storia del rock ancora da appurare, delimitare e semmai redigere.
La prima vera rivoluzione nell’ambito della musica pop-rock è avvenuta grazie ad Elvis Presley, Chuck Berry e i loro emulatori a volte anche astuti e divertenti, eppure quando il rock’n’roll ha smesso di essere considerato come un giovanile trastullo, Bob Dylan ha indicato alcune possibili vie per determinare dei profondi cambiamenti, un approccio più consapevole e maturo. Con i suoi testi ha aperto la forma canzone alla possibilità di raccontare e raccordarsi ad ogni tema, sia politico, sociale, esistenziale, storico o inerente l’attualità. Inevitabilmente e, fortunatamente, si canta ancora di amore e di rapporti personali, del dolore per abbandono o la perdita dell’amata, Dylan lo fa ancora stupendamente quanto intensamente, ma è solo grazie a lui che si possono scrivere e cantare testi che affrontano i temi più svariati. Bob Dylan ha stravolto la struttura stessa della canzone liberandola, quando necessario, dalla forma strofa, ritornello, strofa: grazie al suo approccio nulla è più rientrato nelle regole, la stessa lunghezza del brano pop-rock ha potuto liberarsi di durate condizionate dalla messa in onda radiofonica e dalla quantità di solchi disponibili in un 45 giri. A metà degli anni ’60 alcune canzoni di Dylan si sviluppavano oltrepassando limiti impensabili da poter scardinare: ‘Desolation Row’ nel 1965 si sviluppa in 11 minuti e 21 secondi, l’anno successivo ‘Sad eyed Lady of the lowlands’ ha una lunghezza quasi identica.
Nell’album “Blonde on Blonde” del 1966, un doppio LP per l’epoca assolutamente non comune, oltre ‘Sad eyed Lady of the lowlands’ troviamo anche ‘Visions of Johanna’ che supera i 7 minuti ed altri brani ancora che si estendono senza rispettare criteri di durata. Queste notazioni possono oggi apparire trascurabili, eppure scardinare i meccanismi stantii, suffragati e garantiti da una alienata ripetitività, necessitava di coraggio e Dylan di coraggio era allora pesantemente armato. Per chiunque voglia avvicinarlo, il lavoro complessivo espresso sinora dal Dylan musicista può inizialmente apparire come un metaforico percorso ad ostacoli, ricco com’è di ambiguità, diversità, contraddizioni, a volte cadute d’ispirazione anche se mai di stile. Formarsi quindi una opinione sull’operato di Bob Dylan nell’ambito discografico e valutarla, non è cosa facile o immediata: siamo di fronte oramai a più di 50 anni di musica, ad una enormità di canzoni scritte oppure interpretate, ad uno smisurato numero di musicisti che lo hanno assistito e supportato, ad una serie di concerti cui difficile è dare un numero se non per approssimazione. Bob Dylan è oggi un monolite difficilmente scalfibile che rappresenta, interpreta e offre ancora energia e forza vitale ad una scena che solo grazie alla sua presenza, al suo carisma, può godere di una credibilità che solo raramente le è stata riconosciuta. Dylan è il personaggio, l’autore, il cantante autorevole, il riferimento: negli anni sessanta è stato considerato alla stregua di maitre a penser. John Lennon e Mick Jagger gli riconoscevano un ruolo primigenio nello sviluppo della musica rock e lo dichiaravano apertamente, d’altronde nel 1965 Bob Dylan aveva pubblicato un brano, ‘Like a rolling stone’, che ancora di recente, nelle cicliche classifiche dei brani più significativi nell’ambito pop-rock che i periodici musicali di lingua anglosassone amano stilare, viene eletto dal pool dei votanti nelle primissime posizioni o rilevato come primo classificato. Era quello un brano che per arrangiamento, esecuzione, intrinseca bellezza della composizione, performance canora e sviluppo del testo indicava una strada, un percorso che dopo alcuni anni, esaurita l’estate dei fiori e l’estasi psichedelica, determinò la nascita di quello che oggi è abitualmente detto rock, la forma matura, più articolata ed autonoma del vecchio rock’n’roll. I Beatles del doppio album bianco, gli Stones di “Beggars Banquet”, lo stesso avvento dei Led Zeppelin o il deciso progredire degli Who, derivano dall’ostinato testare soluzioni, rifinire e formulare nuovi approcci che Dylan elabora già nell’album “Highway 61 revisited” del 1965, l’album della definitiva rottura, del distacco e superamento dalle sue origini folk o pseudo-folk, come una critica più acuta tende ormai a ritenere. Ancora oggi Dylan insiste nel dire che mai lui è stato un autore di canzoni di protesta, si ostina sin dai suoi esordi a non voler spiegare i suoi testi, dagli anni ’80 ha iniziato, durante i concerti, a proporre le proprie canzoni, con mutazioni talmente drastiche che a volte si stenta a riconoscerle. Il suo rapporto con il pubblico e con la stampa non sono mai stati concilianti, eppure il richiamo del suo nome non ha mai conosciuto un declino, il prestigio di questo autore unico e probabilmente insostituibile è immutato nel tempo. Dopo i capolavori degli anni ’60 e quelli del decennio successivo: “Blood on the tracks”, ‘Desire’ e un decisamente sottostimato ‘Street legal’ del 1978, Dylan sembra condividere le intuizioni di un produttore come Daniel Lanois, nascono così “Oh Mercy” nel 1989 e “Time out of mind” nel 1997, album che è stato riconosciuto come uno dei suoi più intensi e ragguardevoli. Negli anni ’80 la stella di Dylan è sembrata splendere con minore luminosità, per alcuni critici ed esegeti del menestrello di Duluth, sono quelli gli anni della crisi che coincidono poi con un disorientamento esistenziale, religioso, probabilmente anche politico, rappresentati da lavori come “Saved” del 1980 o “Shot of love” dell’anno successivo. L’attitudine di Dylan a risollevarsi, ridefinire il proprio ruolo e riaffermare la propria autorevolezza è ormai proverbiale e così dopo gli anni dello smarrimento, appaiono due lavori che lo adeguano o meglio lo riallineano con un sound in rapida evoluzione: l’eccellente “Infidels” nel 1983 e il brillante “Empire burlesque” del 1985. Tracciare un profilo di Dylan è compito arduo se non impossibile, è un personaggio decisamente inafferrabile, sfuggente ed evasivo, eppure la sua musica è lì a testimoniare una intensità, una sostanza ed una intelligenza perlomeno insolite e certamente rare nell’ambito pop-rock.
BOX ALBUM
Blood on the tracks (1975)
Considerato da critica e pubblico come il capolavoro di Bob Dylan, questo disco di canzoni d’amore e sofferenza, ha avuto una storia singolare: cinque delle dieci canzoni che lo compongono furono infatti reincise quando l’album era stato consegnato e stava per essere stampato. Per questi cinque brani Dylan usò musicisti pressoché sconosciuti, probabilmente amici del fratello David, che lo aiutò in sala di registrazione. Album imperdibile.
Blonde on blonde (1966)
Con questo doppio LP, articolato su 14 tracce, Dylan conferma il percorso anticipato con le sue due produzioni precedenti: sound elettrico, chiari riferimenti al blues, una personale visione del rock e un umore folk sotterraneo caratterizzano una musica poggiata su testi che occuperebbero di diritto un ampio spazio nell’ideale antologia poetica di Dylan. A pochi mesi dalla pubblicazione Dylan ebbe un grave incidente di moto che per alcuni anni lo tenne lontano dalle scene decretando di fatto l’esaurirsi di un tracciato musicale di cui “Blonde on blonde” rappresenta l’apice interpretativo e compositivo.
Time out of mind (1997)
E’ difficile mantenere un grado di intensità e prestigio nel corso di una avventura musicale iniziata nel marzo del 1962 con l’album “Bob Dylan”. E’ forse per questo, ma anche per l’evidente crisi creativa vissuta per una buona parte degli anni ’80, che all’uscita di “Time out of mind” molti critici ormai scettici e pronti ad una stroncatura, dovettero invece ricredersi ed ammettere che quello era uno degli album più importanti incisi da Dylan dall’inizio del suo percorso musicale. Più di tre decenni di musica, testi ed interpretazioni riassunti in una silloge di brani irrinunciabili e moderni, perché adeguatamente prodotti da Daniel Lanois.
BOX BRANI
Like a rolling stone (1965)
Il giudizio su questo brano è pressoché unanime: è la migliore canzone generata nell’epoca del rock oppure, come suggerisce la rivista Rolling Stone, la più bella canzone mai incisa. I suoi ingredienti non sono frazionabili, è inutile scandagliare gli elementi che la compongono: ‘Like a rolling stone’ è un monolite, non è possibile delinearla, narrarla, esporla o riassumerla, la si può solo ascoltare rimanendone estasiati ed inebriati per i sei minuti e pochi secondi della sua durata.
Hurricane (1975)
E’ una delle canzoni più famose di Dylan, racconta la storia di Rubin ‘Hurricane’ Carter, pugile ingiustamente incarcerato per triplice omicidio. Prosciolto e scarcerato dopo quasi venti anni di reclusione, Carter deve probabilmente a Dylan, alla sua canzone e all’interesse che ne derivò, l’accelerazione di una revisione del processo che ribaltò una sentenza iniziale viziata anche da condizionamenti di carattere razziale.
Knockin’ on heaven’s door (1973)
Nel 1973 Dylan accetta di scrivere la colonna sonora per un film di Sam Peckinpah che ripercorreva l’epopea dello scontro tra lo sceriffo Pat Garrett e il bandito Billy Kid. ‘Knockin’ on heaven’s door’ pur avendo una chiara intenzione country, è divenuta una delle canzoni più conosciute di Dylan, forse la più ampiamente diffusa. Non è certo un caso che di questo brano esistano almeno un centinaio di cover version tra le quali emerge quella dei Guns n’ Roses del 1991.
Blowin’ in the wind (1963)
Anche se Dylan mai lo ammetterà, questa canzone-manifesto, è un inno di protesta, sebbene non miri ad un preciso obiettivo, è un inno pacifista, ma anche una dichiarazione di speranza ed una introiezione esistenziale. ‘Blowin’ in the wind’ è stata letta da molteplici angolature ed ha superato infinite interpretazioni, ma al di là di ogni commento o decifrazione, di sicuro rappresenta uno degli elementi fondanti e degli stimoli da cui scaturirono i fermenti che definirono gli anni ’60.
Make you feel my love (1997)
Alcune canzoni di Dylan hanno trovato nell’interpretazione di altri musicisti nuove possibilità espressive: su tutte, ‘All along the watchtower’ nella versione Jimi Hendrix. ‘Make you feel my love’ è una delle magiche ballate di Dylan, un gioiello compositivo riconosciuto da Billy Joel, la cui versione fu pubblicata un mese prima rispetto a quella di Dylan da Garth Brooks che la trasformò in un successo da classifica, da Bryan Ferry ed infine Adele che la rese sublime. Nessuna delle pur pregevoli interpretazioni è comunque riuscita a scalfire l’intensità dell’originale.