Headhunters
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1. Chameleon 15:41
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2. Watermelon Man 6:29
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3. Sly 10:15
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4. Vein Melter 9:09
È uno dei dischi che ha cambiato la nostra idea di jazz, avvicinando la musica afroamericana per eccellenza al funk e al rock. Con “Head hunters”, il tastierista Herbie Hancock fa tesoro della lezione del maestro Miles Davis, col quale ha suonato per una buona parte degli anni ’60, e la traduce per un pubblico più ampio. Pubblicato negli Stati Uniti, nell’ottobre 1973, l’album apre una nuova fase nella carriera del tastierista. Suonato in modo esaltante usando strumenti per lo più elettrici ed elettronici, “Head hunters” convince i jazzofili ad ascoltare il funk, e viceversa. Resterà per molti anni l’album jazz più venduto della storia, il primo in assoluto a diventare disco di platino.
Lo slancio verso il superamento degli stili era iscritto nella storia di Herbie Hancock, pianista con la passione per la classica, poi musicista nei circuiti R&B e jazz di Chicago. L’interesse per la musica va di pari passo con quello per la tecnologia: sceglie come indirizzo di studi l’ingegneria elettrica conscio che di jazz si sopravvive a stento. Assoldato da Miles Davis, lascia il pianoforte per le tastiere elettriche, un passaggio cruciale per la sua storia. Per buona parte degli anni ’60, parla lo stesso linguaggio musicale di Miles. Sono anni cruciali per il cosiddetto jazz-rock: i musicisti fondono la libertà improvvisativa del jazz, l’energia del rock, la fisicità del funk. Uscito dal gruppo, Hancock pubblica tre dischi con il proprio progetto fusion, i Mwandishi, per poi fondare in California una nuova band, gli Headhunters. Ne fanno parte Bennie Maupin ai sassofoni e ai legni, Paul Jackson al basso elettrico, Harvey Mason alla batteria, Bill Summers alle percussioni. L’idea è suonare una versione jazz della musica funk che il tastierista ama, quella di Sly Stone e James Brown, con occasionali tocchi afro. Anzi, l’idea era fare un disco funk, ma come ha detto il tastierista al New York Times «l’influenza jazz continuava a venire fuori».
«Avevo la sensazione di avere esplorato, fino a quel momento, la parte più etera della musica», dirà Hancock. «Ora sentivo l’esigenza di suonare qualcosa di più terreno». In un’intervista a Billboard del 1974, il tastierista lega la sua personale rivoluzione musicale all’adesione al buddismo: «È stato durante un momento di meditazione che mi sono visto come uno snob. Fino a quel momento non avevo mai messo in dubbio il mio approccio alla musica. È stato allora che ho capito che non c’era niente di male nel suonare musica diretta che comunica verità sincere alle masse e le rende felici». Lo si capisce dal pezzo che apre “Head hunters”. I sedici minuti di “Chameleon” segnalano il nuovo atteggiamento di Hancock: lo spirito improvvisativo del jazz è declinato con un senso della misura e della semplicità che permettono di comunicare con un pubblico ampio; il ritmo è elemento centrale, con un memorabile riff di basso creato dal sintetizzatore; i suoni sono marcati e lancinanti; l’interplay è esaltante; gli assoli sono divisi fra synth e tastiera elettrica. Il pezzo diventa immediatamente un classico, e non solo in ambito jazz.
Le lunghe improvvisazioni sono figlie della sensibilità jazz, ma il groove guarda al mondo funk, soul e rhythm & blues. La vena elettrica è rimarcata dagli strumenti suonati dal bandleader: piano elettrico Rhodes, Clavinet col pedale wah-wah, sintetizzatori ARP. L’altro classico del disco, un pezzo preso dal repertorio anni ’60 di Hancock chiamato “Watermelon man”, è basato sul dialogo ritmico fra gli strumenti: il Clavinet parla con la batteria, il basso elettrico con la chitarra. Il dialogo è eccitato, l’arrangiamento si arricchisce di elementi afro, col batterista che soffia dentro una bottiglia di birra per imitare uno strumento dei pigmei che ha sentito nell’album “The music of the Ba-Benzélé pygmies”. A rimarcare uno delle fonti d’ispirazione del disco, Hancock chiama “Sly” il pezzo che apre il lato B del 33 giri, un’improvvisazione guidata dal sax di Maupin e propulsa dalla batteria di Mason e dalle congas di Summers. Nel 1974 verrà tratto un 45 giri con una versione compatta di “Chameleon” di appena tre minuti, con sul retro un estratto di “Vein melter”, la composizione che chiude l’album evocando la collaborazione con Davis.
In copertina Victor Moscoso – uno degli autori dei primi poster nella San Francisco psichedelica – offre una sua visione della band. I musicisti sbucano dalle spalle del leader, mentre la testa di Hancock è trasformata in una versione tecnologica di maschera kple kple usata nella Costa d’Avorio, con un indicatore a lancetta del volume di registrazione al posto della bocca. Il disco è un successo strepitoso: arriva in vetta alla classifica jazz e fino al tredicesimo posto di quella pop. Oggi è considerato un caposaldo della fusion e in genere della black music. Le sue note sono state campionate da Tupac, Beck, Coolio, Kool G Rap, Nas, Digital Underground, Digaple Planets, LL Cool J. Se ne ritrovano tracce persino nei repertori di George Michael, Madonna, PJ Harvey.