Ammonia Avenue
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1. Prime Time 5:03
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2. Let Me Go Home 3:20
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3. One Good Reason 3:36
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4. Since the Last Goodbye 4:34
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5. Don’t Answer Me 4:13
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6. Dancing on a High Wire 4:22
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7. You Don’t Believe 4:26
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8. Pipeline 3:56
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9. Ammonia Avenue 6:30
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10. Don’t Answer Me 5:07
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11. You Don’t Believe 2:20
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12. Since the Last Goodbye 0:27
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13. Since The Last Goodbye 4:23
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14. You Don’t Believe 3:06
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15. Dancing On A Highwire / Spotlight 3:55
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16. Ammonia Ave 2:40
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17. Ammonia Ave 1:22
1974: due uomini si incontrano negli studi di Abbey Road, a Londra. Uno, è di casa: Alan Parsons, fa l’ingegnere del suono, ha lavorato con i Beatles ed è reduce dalle sessioni di studio con i Pink Floyd per “The dark side of the moon”. L’altro, Eric Woolfson, lavora come sessionman, ogni tanto. Ha in mente l’idea e i materiali per un concept album su Edgar Allan Poe.
I due capiscono che hanno talenti complementari. Ma inizialmente è Parsons, frustrato dal mettere le sue doti al servizio di altri, a chiedere a Woolfson di fargli da manager. Il nome del gruppo, che nasce ufficialmente nel ’75, sarà quindi il suo.
The Alan Parsons Project nell’immaginario musicale sono legati soprattutto a due hit pop “Eye in the Sky” e “Don’t answer me” – la prima è un successo nell’82, la seconda è il brano centrale di “Ammonia avenue”, il loro settimo disco, datato 1984.
Ma i loro esordi sono legati al progressive rock e, appunto, all’idea di sviluppare concept album: “Tales of mystery and imagination”, il loro esordio del ’76, è la concretizzazione dell’idea che li ha uniti, quella di di lavorare su Edgar Allan Poe.
Nel corso degli anni si allontanano sempre più da quelle origini, espandendo la loro popolarità, ma ottenendo successo fuori dalla loro patria che altrove, soprattutto in America e nell’Europa continentale: “Eye in the sky” diventerà uno dei singolo più venduti anche in Italia, nell’82, oltre ad arrivare al numero 1 in Canada e Spagna.
Quando si tratta di dare un seguito a quel disco, Parsons e Woolfson fanno una scelta sonora ancora più netta, incidendo un disco che oggi rimane come un simbolo del pop-rock del periodo.
Le origini tematiche del disco sono sempre concettuali: il titolo è ispirato da una visita di Eric Woolfson alle Imperial Chemical Industries di Billingham: narra la leggenda che il musicista abbia visto una distesa di tubi senza traccia di gente o vegetazione, e un cartello “Ammonia avenue”, “Via dell’ammoniaca”. L’immagine è rimasta in copertina e nei temi delle canzoni, che spesso riflettono sul rapporto tra uomo e progresso scientifico e industriale.
Musicalmente, invece “Ammonia avenue” è un disco che fa un salto indietro alle origini del pop-rock, attualizzandolo con i suoni dell’era: “Don’t answer me” costruisce un “wall of sound” alla Phil Spector, con una melodia che richiama quella della hit precedente. “You don’t believe”, già pubblicata nel 1983, usa un classico incrocio di chitarre e sintetizzatori. L’unica concessione al “prog” è la chiusura dell’album, con lo strumentale “Pipeline” (che richiama fin dal titolo il tema e la copertina), che sfuma nella title track finale, che parte come ballata basata sul piano per aprirsi in un crescendo dai suoni più ’70 che ’80.
La band arriverà fino alla fine del decennio, pubblicando ancora tre album – l’ultimo ufficiale attribuito al gruppo è “Gaudì” dell’87, prima di lavorare al musical “Freudiana” – durante le cui lavorazioni i due constatarono le proprie divergenze. L’album uscirà (ma senza il nome del gruppo) e Alan Parsons continuerà da solista, senza “Project”.
Ma se per i fan più legati alle loro origini prog “Ammonia avenue” è un disco controverso, per tutti gli altri rimane una perfetta sintesi del pop-rock anni ’80.