
Azimut
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1. Posto Di Non So Dove 6:12
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2. Grandangolo 8:22
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3. Aspettando Il Nuovo Giorno 3:55
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4. Azimut 7:18
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5. Un Respiro 1:30
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6. 36 Parallelo 9:51
C’è stato un tempo in cui i confini fra jazz elettrico e rock sembravano labili. Fra i primi ad adoperarsi in Italia all’inizio degli anni ’70 per abbattere il muro che divideva i due generi c’erano i Perigeo. Ispirati dalle gesta di Miles Davis e folgorati in particolare da “Bitches brew”, nel 1972 assemblano l’album d’esordio “Azimut” presso lo Studio D della RCA romana. È diverso da qualunque altra cosa circoli in Italia. In una formazione a cinque che comprende un pianista, un sassofonista, un chitarrista elettrico, un (contrab)bassista e un batterista, i Perigeo mirano alla creazione di una variante italiana di jazz-rock, evidentemente affratellato con quello americano, ma radicato nel nostro Paese e appetibile per il pubblico giovanile che frequenta i cosiddetti festival “pop”.
Basterebbe il background dei musicisti per raccontare la natura ibrida della band. Il fondatore Giovanni Tommaso, da Lucca, è un contrabbassista e bassista elettrico che ha una lunga storia come leader e turnista. È spalleggiato dal pianista jazz Franco D’Andrea del Modern Art Trio, già collaboratore di Gato Barbieri e destinato a una luminosa carriera solita. In un primo tempo i due chiamano il batterista con esperienze beat Bruno Biriaco e con lui provano in trio. Il batterista suggerisce di coinvolgere il sassofonista soprano e alto Claudio Fasoli che ha visto suonare in un festival del jazz del 1970 al Teatro dell’Arte di Milano. Tommaso chiama il chitarrista d’estrazione rock Tony Sidney dopo averlo ascoltato a Firenze, impegnato in un trio modello Jimi Hendrix Experience. Grazie all’attività di session man svolta da Tommaso all’interno della RCA, la band firma un contratto per un disco.
Composto da due brani cantati e quattro strumentali alcuni dei quali sfiorano i 10 minuti, “Azimut” è un viaggio in una terra immaginaria. Inizia con una sorta di canto propiziatorio avvolto in una ambientazione onirica che apre la strada a furiose improvvisazioni pianistiche su un basso pulsante (“Posto di non so dove”). Prosegue con i clangori misteriosi di “Grandangolo”, che nel riff in qualche modo mette assieme rock, progressive e jazz. Finisce con la frenesia metropolitana di “36° parallelo”, che culmina in un picco rumoristico. In mezzo, le linee cantabili di “Aspettando il nuovo giorno”; la magniloquenza di “Azimut”, col contrabbasso suonato con l’archetto e un riff di splendente luminosità; il minuto e mezzo di “Un respiro”, l’unico altro brano cantato da Tommaso. Fra parti eccitanti di Fender Rhodes, assoli di piano, sax e chitarra, dissonanze pungenti, momenti di caos e altri meditativi, la voglia di libertà del jazz viene coniugata con il senso d’urgenza del rock in un esperimento spregiudicato che in qualche modo riflette il contesto culturale in cui opera il gruppo.
Come ha raccontato D’Andrea nel libro di Arrigo Zoli “Fortissimamente jazz! Incontro con Franco D’Andrea”, a Roma si respirava un’atmosfera eccitante. “Musicalmente tutto era ritenuto possibile: era assolutamente vietato avere pregiudiziali ed inibizioni. In uno stesso concerto si potevano ascoltare formazioni Dixieland e gruppi free. Questi ultimi potevano comprendere musicisti autodidatti, jazzisti, ‘colti contemporanei’ in uno spirito di coesistenza del tutto pacifica. L’approccio alla musica (…) era di tipo spiccatamente spontaneistico, una sorta di jam session free”. E poi c’era il periodo attraversato dal jazz a livello internazionale, come ha raccontato Biriaco al sito Accordo: “Il jazz cercava nuove strade espressive con l’esigenza di ‘liberarsi’ di tutto quello che, sul piano formale, era stato detto con il be-bop. C’era il free jazz con Ornette Coleman, Don Cherry e altri importanti musicisti, più determinato nella ‘rottura’ dei vecchi schemi (tempo, armonie e improvvisazione sul giro armonico) e poi negli anni ’70 arrivò, quasi come naturale conseguenza, Miles Davis con ‘Bitches Brew’”.
Pur non essendo un successo commerciale e pur incorrendo nelle critiche di alcuni jazzofili puristi, “Azimut” assicura alla band un contratto per cinque album. L’esperienza dura fino al 1977, passa per il successivo “Abbiamo tutti un blues da piangere” e per i due album “Genealogia” e “La valle dei templi” che entrano persino nella classifica di vendita. I Perigeo si fanno un nome esibendosi in Italia e all’estero, anche come “scomodi” supporter dei Weather Report, suonano al festival del Parco Lambro a Milano e a quello di Villa Pamphili a Roma, contribuiscono a una stagione di rinnovamento per la scena italiana, che si lascia alle spalle il passato per guardare a un avvenire tutto da inventare. Come recita il testo di “Posto di non so dove”, “Non vedo nel passato, ma io credo nel futuro”.