Electric Ladyland
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1. …And The Gods Made Love 1:21
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2. Have You Ever Been (To Electric Ladyland) 2:11
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3. Crosstown Traffic 2:27
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4. Voodoo Chile 15:00
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5. Little Miss Strange 2:52
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6. Long Hot Summer Night 3:28
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7. Come On (Let The Good Times Roll) 4:09
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8. Gypsy Eyes 3:44
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9. Burning Of The Midnight Lamp 3:39
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10. Rainy Day, Dream Away 3:43
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11. 1983…(A Merman I Should Turn To Be) 13:39
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12. Moon, Turn The Tides…gently gently away 1:02
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13. Still Raining, Still Dreaming 4:25
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14. House Burning Down 4:33
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15. All Along the Watchtower 4:01
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16. Voodoo Child (Slight Return) 5:13
“Ci ho messo giù o meno la metà delle cose che volevo esprimere”, dice Jimi Hendrix del doppio “Electric ladyland”. Pubblicato nel settembre 1968, è il padre di tutti gli album carichi di idee, suoni, suggestioni, una massa ribollente di canzoni e sperimentazioni destinato a diventare modello per tutti i dischi basati su jam session e grandi gesti musicali. È il lavoro che, nelle intenzioni del suo autore, fa passare Hendrix dallo status fumettistico di “supernegro psichedelico” a quello di “musicista/produttore maledettamente bravo”, secondo le definizioni contenute nella recensione d’epoca di Rolling Stone. Nel giro di poche settimane, il 33 giri finisce primo in classifica negli Stati Uniti e sesto del Regno Unito. Contiene il 45 giri più venduto in assoluto dell’Experience, la cover di “All along the watchtower”. È considerato l’album più ambizioso e riuscito di Jimi Hendrix, l’epitaffio del trio, l’inizio di una nuova era di liberazione che finirà bruscamente dopo appena 24 mesi, con la morte del chitarrista.
Americano, Hendrix aveva fatto scalpore a Londra, dov’era apparso come un marziano nel 1966 sconvolgendo persino i guitar hero dell’epoca, Eric Clapton e Pete Townshend, conquistando le menti pensanti del pop britannico come Paul McCartney e Mick Jagger. Tornato negli Stati Uniti, aveva preso casa a New York e lì ha organizzato le session del suo terzo album con gli Experience, ovvero il batterista Mitch Mitchell e il bassista Noel Redding. Il laboratorio musicale di Hendrix brulicava di idee nuove e avventurose. C’era da togliersi di dosso l’etichetta di freak, di fenomeno da baraccone che suona la chitarra con la bocca o dietro la schiena. C’era da dimostrare che “il selvaggio del Borneo”, com’era stato etichettato con un nomignolo a dir poco infelice, era capace di costruire canzoni ancora radicate nel blues, ma dal respiro “cosmico”. C’era da giocare la carta del disco importante ed eclettico.
Le prime session hanno luogo ai Record Plant di New York nella primavera del 1968. Sono a dir poco caotiche. Chiunque sia vagamente amico di Hendrix ha accesso alla sala d’incisione. E pure musicisti di passaggio, groupie, spacciatori, approfittatori, una variopinta corte dei miracoli che rallenta il lavoro e infastidire molti. “Era una festa, non una session”, dirà Redding. I tempi si allungano, il chitarrista finirà per pagare un affitto stratosferico per l’epoca. La formula del trio, che lui stesso ha contribuito a rendere centrale nel mondo del rock, ora gli va stretta e allora in studio passano il vecchio amico e batterista Buddy Miles, star come Stevie Winwood, musicisti come Al Kooper (l’organo di “Like a rolling stone” di Bob Dylan), Chris Wood (Traffic), Jack Casady (Jefferson Airplane). Hendrix sguazza nel caos, è un accentratore, l’Experience è a un passo dalla dissoluzione. Al fianco del chitarrista, in cabina di regia, ci sono il fidato Eddie Kramer, Gary Kellgren e Chas Chandler, a un passo dalle dimissioni, ma il produttore è lui, Hendrix. Alla ricerca della sfumatura perfetta rifà gli stessi assoli cinque, dieci, trenta volte – si dice che “Gypsy eyes” sia frutto di 50 diverse prove – e dopo una giornata di session va a suonare in qualche club newyorchese. Queste sedute lunghe, tese e caotiche danno origine a 16 canzoni che incarnano lo spirito fantasioso e avventuroso dell’uomo e del musicista.
“Electric ladyland” è l’album più eclettico di Hendrix, un miscuglio di feeling da jam session e stratagemmi da sala d’incisione. Il pezzo iconico è “Voodoo child”, presente in versione relativamente corta, sottotitolata “Slight return”, e in una jam di un quarto d’ora di durata in cui la chitarra elettrica dialoga con l’organo Hammond di Winwood. Nata in un club chiamato Scene, con una ventina di persone portate in studio per effettuare la registrazione alle 7 di mattina, “Voodoo child” ha un un testo che evoca i riti magici ampiamente celebrati dal blues, un autoritratto potente e metaforico. Nell’altro pezzo “monstre” dell’album, l’apocalittico “1983… (A merman I should turn to be)”, si respirano odori psichedelici evocati dal lavoro svolto in fase di produzione, dalle diverse sezioni che si alternano, dalle digressioni freak.
In “Crosstown traffic”, con l’immagine del musicista che passa letteralmente con la sua auto sulla schiena di una donna che lo ostacola, Hendrix evoca lo stile canoro del jazz, altrove vi sono generose inibizioni di funk. In “Burning of the midnight lamp” si fa largo uso del pedale wah wah, mentre in “House burning down” si notano i primi segni della coscienza sociale che il musicista sta sviluppando in quel periodo. Un altro colpo da maestro è la cover di “All along the watchtower”. Acustica ed enigmatica nella versione di Bob Dylan, diventa intensa ed elettrica in quella di Hendrix. Quest’ultima finirà per oscurare il pezzo di “John Wesley Harding”, diventando uno dei modelli di come si deve affrontare una cover nel rock, tradendo e al tempo stesso esaltando l’originale. A “Rainy day, dram away” va invece il titolo di prima canzone pubblicata senza l’apporto di Redding, né Mitchell: l’atmosfera da jazz club è ricreata con altri musicisti, fra cui il sassofonista Freddie Smith.
“Electric ladyland” è un ritratto della vita da rocker condotta da Hendrix, quella che chiamava “stanza piena di specchi”. Le “electric ladies” evocate dal titolo sono le groupie cui viene reso omaggio nella copertina inglese, che finì per essere censurata e avvolta nei negozi di dischi da una carta da pacchi marrone. Hendrix vi doveva apparire circondato da ragazze, ma non si presentò alla session fotografica. Lo scatto di David Montgomery pubblicato immortala una ventina di modelle nude. Paga: 5 sterline, più altre 5 a chi si era tolta le mutandine. Una delle ragazze, Reine Sutcliffe, disse contrariata al Melody Maker che la foto “ci fa sembrare tutte delle vecchie sgualdrine”. La cover non piaceva nemmeno a Hendrix che compilò istruzioni dettagliate su come impostare la copertina dell’edizione americana, suggerendo di usare una foto scattata da Linda Eastman a Central Park. Fu usata invece un’immagine classica della Experience, poi rimpiazzata da un primo piano del chitarrista avvolto dalle luci rossastre di un concerto, scattato da Karl Ferris nel 1967 al Saville di Londra.