Hegel
“Hegel” del 1994 è l’ultimo album di Lucio Battisti, che morirà quattro anni dopo la pubblicazione senza lasciare altra musica dietro di sé. È anche il punto più estremo della collaborazione con il “giocoliere di parole” Pasquale Panella. Che cos’altro avrebbero potuto inventare i due dopo cinque album assieme e in particolare dopo questo gioco virtuosistico in cui testi a sfondo filosofico incontrano arrangiamenti sintetici e le riconoscibilissime melodie di Battisti? Qualcuno afferma che il loro sodalizio si sarebbe comunque sciolto poiché giunto all’epilogo naturale. Comunque stiano le cose, “Hegel” è un disco controverso, respingente per alcuni e intrigante per altri, il manifesto di un modo di far musica unico, distintivo, persino rivoluzionario, un atto d’accusa al carattere sedato e prevedibile della canzone italiana.
Per cominciare, i testi di “Hegel” nascono prima delle musiche. Certo, avviene uno scambio collaborativo fra Battisti e Panella in cui i materiali vengono in parte riadattati, ma mai come nell’album del ’94 si ha la sensazione che il cantante faccia i salti mortali per intonare le parole messe in fila da Panella. Il quale, intervistato da Repubblica prima dell’uscita del disco, lo racconta come una cosa aliena dal “perbenismo immondo, cantabile e ballabile” della canzone. “L’Italia è attraversata dalla canzoncina, dalla musica leggera, questa cosa acquietante, torporosa, analgesica, democristiana, berlusconiana”. E perciò presenta il disco così: “È che un giorno, io, schifato dell’essere al mondo un frequentatore della cantina, cioè della canzone carina, ad un certo punto scrissi, un dì, non altro, non più, non forse che un disco chiamato Hegel”.
L’album vive di un meraviglioso gioco di contrasti e rimandi. “Vogliono la verità? Vogliono la semplicità? Gliela do nella sua forma più pura, più estrema: la filosofia”, dice Panella. Ecco allora “Hegel”, la canzone, dove la vita e l’opera del filosofo sono ovviamente re-immaginate, con versi assurdi come “Ricordo il suo bel nome Hegel Tubinga / Ed io avrei masticato la sua tuta da ginnastica” e riferimenti alla “Fenomenologia dello spirito” o forse alla storia personale del pensatore nel passaggio “Chi di noi il governato e chi il governatore / Son fatti che attengono alla storia / Chi fosse la provincia e chi l’impero”. E poi c’è “Tubinga”, dal nome della città dove il filosofo tedesco studiò, con l’immagine del motorino di un frullatore dentro la testa di Seneca. Tutto l’album, in realtà, è un fuoco d’artificio, un gioco d’incastri di parole ardito che spinge fan e commentatori ad avanzare strane interpretazioni, come quella secondo cui dietro alla figura di Hegel ci sarebbe Mogol.
I testi di Panella s’accompagnano a musiche elettroniche essenziali, con arrangiamenti eseguiti da tre soli musicisti: Andy Duncan (batteria, percussioni, programmazione), Lyndon Connah (chitarra, tastiera, programmazione) e lo stesso Battisti (chitarra). Il suono è freddo, ha ben poco di umano, le canzoni si basano su ritmiche se si ripetono in modo quasi ipnotico. La forma-canzone è sovvertita, mal si sposerebbe del resto a questa idea di canzone che viene riadattata all’eloquio ubriacante di Battisti, che riesce a intonare i versi di Panella in modo spericolato eppure naturale. In alcuni passaggi riemerge lo spirito melodico che ha reso celebre il cantante di Poggio Bustone, che si congeda usando il suo registro più alto, quasi un canto privo di corpo, nell’ultima canzone “La voce del viso”.
L’album esce il 29 settembre 1994, una data che nel calendario battistiano ha una certa importanza. Sulla copertina, che ricollega il lavoro agli altri “album bianchi” scritti con Panella, campeggia una grande, enigmatica lettera “E”. Ed enigmatico suona tutto il disco, che non resta a lungo nella classifica dei più venduti, lontano dai best seller italiani di quell’anno come Jovanotti e Laura Pausini. Col passare degli anni, però, si è compresa la portata dell’album e delle ultime opere di Battisti. Diceva lo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami con un certo ottimismo: “L’incontro con il poeta Pasquale Panella, a mio parere, ha offerto a Battisti la possibilità di esprimere il meglio di sé. Forse per un po’ di tempo ancora si continueranno a canticchiare le sue vecchie canzoni, ma le migliori sono senz’altro quelle scritte negli anni ’80 e ’90. Sono canzoni più ricche di echi e di sensi, di contaminazioni, di suoni, di scarti linguistici”.