Jet Lag
Un aereo di carta vola nel cielo azzurro. È la copertina di “Jet lag”, l’album che chiude l’avventura americana della PFM. Il titolo, che si riferisce al “mal di fuso orario” tipico dei viaggiatori, è quanto mai azzeccato. È il 1977 e il gruppo milanese sta infatti cercando di conquistare il mercato americano. Il jet lag provato dai musicisti non è solo quello provocato dai voli intercontinentali, è anche figurato, è lo shock culturale sperimentato girando gli Stati Uniti in concerto. Quest’anima divisa in due emerge dai pezzi dell’album dove il gruppo non rinuncia del tutto alla sua italianità e alle influenze prog inglesi, ma s’avventura in territori della fusion, la miscela ad alto tasso tecnico di jazz e rock praticata in quegli anni dai Weather Report, dai Return To Forever di Chick Corea, dalla Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin.
Grandi cambiamenti sono in atto. La PFM è reduce dalla pubblicazione di “Chocolate kings”, l’album in cui la formazione è stata riorganizzata con Bernardo Lanzetti alla voce e ha lanciato l’assalto all’America, finendo per alimentare polemiche per le prese di posizioni pro Palestina, per la copertina dove la bandiera americana è usata come carta per avvolgere una tavoletta di cioccolato, per i testi critici con la presenza “colonizzatrice” degli Stati Uniti. La formazione subisce un altro scossone con l’abbandono del polistrumentista Mauro Pagani alla fine di un tour inglese. La PFM non demorde e rilancia, continuando a rivolgersi al mercato anglo-americano. E così il nuovo album “Jet lag”, che esce nel 1977, è cantato quasi interamente in inglese, con l’aiuto nella stesura dei testi di Marva Marrow che ha già lavorato a “Chocolate kings” e che tornerà a collaborare con il gruppo nel 2017, per “Emotional tattoos”.
Se in Italia “Jet lag” esce per la nuova etichetta del gruppo, lo Zoo, negli Stati Uniti viene pubblicato dalla Asylum. La casa discografica fondata da David Geffen, fusasi con la Elektra, ha messo sotto contratto gente come Jackson Browne, Tom Waits, Joni Mitchell e, per in breve periodo, persino Bob Dylan. In alcuni degli otto brani del disco (una ristampa del 2010 contiene anche una versione dal vivo risalente al 1976 di “La carrozza di Hans”) la formazione a cinque è aumentata dalla presenza del violinista (acustico ed elettrico) Gregory Bloch, che ha già suonato con gli It’s a Beautiful Day. Vengono invece abbandonate altre opzioni, come quella di affiancare un secondo chitarrista a Franco Mussida o coinvolgere un sassofonista.
Dopo l’introduzione acustica di “Peninsula”, la title track riserva la prima sorpresa e annuncia il carattere dell’album: è una PFM nuova, più incline al jazz-rock rispetto al passato. La title track è zeppa di idee, parti ritmiche intricate, sezioni che si susseguono anche in contrasto l’una all’altra. La strumentale “Storia in La” è uno degli episodi più interessanti, cresce molto lentamente con un bel dialogo fra violino e Moog. “Cerca la lingua” si apre con il suono “soffiato” del violino di Bloch che traccia melodie che ricordano la “vecchia” PFM e forse non a caso è l’unica canzone interpretata in lingua italiana, mentre “Left-handed theory” ribadisce l’amore per la fusion. Se la voce di Lanzetti è una conferma, il suono del basso elettrico fretless suonato da Patrick Djivas è per l’epoca una piccola sorpresa – e del resto quello è il periodo in cui Jaco Pastorius sta rivoluzionando il basso jazz.
“Jet lag” è pronto nel gennaio 1977, ma i tempi stanno cambiando, specialmente per il progressive rock. Il grande pubblico cerca svago nella disco music, gli appassionati di rock scoprono il punk di Clash e Sex Pistols. L’idea di musica cosmopolita della PFM non attecchisce e il gruppo chiude il periodo americano. L’album del 1979 “Passpartù” sarà cantato in lingua italiana e rappresenterà un nuovo cambiamento.