Metrodora
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1. Segmenti uno 3:39
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2. Segmenti due 4:06
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3. Segmenti tre 4:01
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4. Segmenti quattro 4:32
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4. Segmenti quattro 4:32
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5. 4:14
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6. Metrodora 8:57
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7. 4:10
L’ascolto del debutto solista di Demetrio Stratos “Metrodora” può essere un’esperienza scioccante, persino disturbante. Non è un disco di canzoni, ma di sola voce (o quasi). Contiene pochissime parole, per lo più suoni. Non mira a comunicare tramite moduli espressivi tradizionali, ma a liberare l’uso voce dall’idea che essa debba veicolare significati verbali ed esprimersi secondo certi canoni. Stratos è convinto che si possa cantare la voce esattamente come si suona uno strumento e “Metrodora” è il suo primo esperimento compiuto in cui il canto è espressione di pura libertà: è il suono del sabotaggio dell’uso tradizionale della voce, che diventa forza primitiva e infantile.
Emerso dalla scena rock anni ’60 – è il cantante di “Pugni chiusi” dei Ribelli, nella hit parade italiana nel 1967 – Demetrio Stratos trova una casa accogliente presso gli Area e l’etichetta discografica milanese Cramps. In quel contesto brulicante di stimoli, ha modo di applicare le idee maturate in anni di studio della voce. “Oggi, con il declino della vecchia vocalità cantata, si tende a usare la voce come tecnica di espressione”, dice all’epoca. “Io voglio spingere la mia ricerca più in là, fino ai limiti dell’impossibile. Faccio esperimenti sui suoni più acuti e sono arrivato fino a 7000 Hz. Cerco di prendere tre o quattro note alla volta, di lavorare sugli armonici. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la tecnica di espressione, è più che altro una tecnica di controllo mentale, è un microcosmo ancora da esplorare”.
Il primo passo di questa esplorazione è proprio “Metrodora”, che prende titolo dall’autrice di un trattato di medicina vissuta nell’Impero Bizantino del VI secolo d.C. L’album esce per la collana della Cramps chiamata DIVerso nel 1976, subito dopo l’album degli Area “Crac!”, eppure i vocalizzi di Stratos nulla hanno in comune con l’inno del gruppo “Gioia e rivoluzione”. La comunicazione di tipo verbale è accantonata a favore di una dimensione non-narrativa. Lo scopo è allargare il campo di azione della voce.
La prima facciata è occupata da quattro “Segmenti”. Nel primo, Stratos passa da acuti, una specie di yodel che apre l’album, a suoni ora gutturali, ora soffiati. Nel secondo segmento all’alternanza brutale di registri si aggiungono sovraincisioni e suoni bizzarri prodotti tramite piccoli stratagemmi. Attorno alla voce c’è il silenzio assoluto che viene rotto nel terzo segmento dal riverbero per simpatia delle corde di un pianoforte: Stratos registra infatti urlando in modo animalesco nella cassa di risonanza dello strumento. L’ultimo segmento è costruito sulla sovrapposizione di cinque tracce vocali, fra cui una che funziona da bordone, un gioco di glissati che dà vita a uno spiazzante effetto ipnotico e a una formidabile resa sonora. Il timbro della voce non è alterato in sala di registrazione. Stratos si limita a usare la deglutizione di acqua, un bicchiere, una corda, la vibrazione di cartine per sigarette.
La seconda facciata si apre e si chiude con due mirologhi, reinvenzioni di lamentazioni funebri appartenenti alla tradizione greca. Come spiegato nelle note di copertina, i canti esprimono “un atteggiamento di primitiva energia rivissuto intensamente dal profondo, al di fuori di idealizzazioni posticce o scaltri sfruttamenti di una tradizione”. Stratos improvvisa e poi con l’aiuto del tecnico in studio taglia e rimescola la performance offrendola in versione naturale e manipolata. Per la prima volta si ascolta uno strumento, il sintetizzatore di Paolo Tofani degli Area, e si hanno linee melodiche compiute. Stretti fra i due mirologhi vi sono i 9 minuti di “Metrodora”: si ascoltano finalmente delle parole di senso compiuto tratte dal ricettario di Metrodora per il mal di gola, ma i significanti sono privati dei significati e usati come puri suoni. Due diverse voci sono sovraincise creando sovrapposizioni ritmiche spiazzanti che possono ricordare il lavoro del minimalista americano Terry Riley, ma il concetto base è l’opposto, nota all’epoca Stratos. “Qui non si tende a narcotizzare l’ascoltatore, ma al contrario ad aumentare la tensione, pur con un’impostazione ripetitiva”.
“Metrodora” è un disco difficile, quasi un canto di protesta verso la “ipertrofia vocale occidentale” che “ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche”. Liberata da ogni restrizione culturale, la voce diventa pura possibilità. Ai tempi di “Metrodora”, scriverà Stratos in una lettera indirizzata all’Unità due anni dopo, “la liberazione avveniva attraverso un espressionismo esasperato sulla flessibilità della voce, recupero dei primi suoni dell’infanzia, suoni persi attraverso l’organizzazione della parola”. È un punto di partenza che porterà due dopo all’album “Cantare la voce” e una ricerca interrotta dalla morte di Stratos nel 1979, a soli 34 anni.