Nine Lives
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1. Nine Lives 4:01
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2. Falling In Love (Is Hard On The Knees) 3:25
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3. Hole In My Soul 6:10
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4. Taste of India 5:53
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5. Full Circle 5:00
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6. Something’s Gotta Give 3:36
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7. Ain’t That A Bitch 5:25
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8. The Farm 4:27
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9. Crash 4:25
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10. Kiss Your Past Good-bye 4:31
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11. Pink 3:55
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12. Falling Off 3:00
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13. Attitude Adjustment 3:44
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14. Fallen Angels 8:16
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15. I Don’t Want to Miss a Thing 4:57
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16. Nine Lives (Redbook) 4:01
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17. Falling In Love (Is Hard On The Kness) 3:25
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18. Hole In My Soul (Redbook) 6:10
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19. Taste Of India (Redbook) 5:53
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20. Full Circle (Redbook) 5:00
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21. Something’s Gotta Give 3:36
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22. Ain’t That A Bitch (Redbook) 5:25
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23. The Farm (Redbook) 4:27
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24. Crash (Redbook) 4:25
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25. Kiss Your Past Good-bye 4:31
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26. Pink (Redbook) 3:55
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27. Attitude Adjustment (Redbook) 3:44
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28. Fallen Angels (Redbook) 8:16
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29. Virtual Music Sound Samples (Non Redbook) 0:01
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30. Multimedia, Extras 0:01
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31. Multimedia, Extras 0:01
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32. Multimedia, Extras 0:01
Se c’è una band che ha dimostrato di avere “Nine lives”, nove vite tante quante gli americani attribuiscono ai gatti, si tratta degli Aerosmith.
Amatissimi negli anni ’70, poi travolti da dissidi interni e problemi di droga, rinati a metà degli ’80 con un successo imprevedibile, considerati sorpassati e nuovamente risorti nei ’90. Proprio “Nine lives” è il titolo dell’album del 1997 che rilancia per l’ennesima volta il nome degli Aerosmith grazie a un hard rock spettacolare, confezionato con formidabile professionalità e una buona dose di malizia. Il disco va al primo posto della classifica americana e nel giro di quindici mesi guadagna il doppio platino, mentre il singolo “Pink” vince un Grammy come Best Rock Performance di gruppo e spopola su MTV. Eppure le sedute di registrazione sono piuttosto tormentate. “Avremmo dovuto chiamarlo ‘Novecento vite’, tante sono quelle che mi pare di avere vissuto prima di completarlo”, commenterà il chitarrista Joe Perry.
“Nine lives” segna il passaggio della band dalla Geffen, l’etichetta discografica artefice del loro rilancio, alla Columbia con la quale ha pubblicato i dischi migliori negli anni ’70. Il contratto viene sottoscritto nel 1991, e si vocifera che abbia fruttato 30 milioni di dollari in anticipi, ma prima di accasarsi presso la “nuova” etichetta gli Aerosmith devono alla Geffen un album (“Get a grip”, 20 milioni di copie vendute nel mondo) e una antologia (“Big ones”, 4 milioni di copie solo negli Stati Uniti). Quando si tratta di pensare al nuovo lavoro, nel 1995, Steven Tyler e Joe Perry seguono un copione collaudato e chiamano come co-autori hitmaker del calibro di Desmond Child (da “I was made for lovin’ you” dei Kiss a “Livin’ on a prayer” dei Bon Jovi), Marti Frederiksen (la cui carriera è lanciata anche grazie agli Aerosmith), Taylor Rhodes (già co-autore di “Cryin’”), Mark Hudson (che aveva contribuito a “Livin’ on the edge”), il vecchio amico Richard Supa e Glen Ballard, il partner di Alanis Morissette nel best seller “Jagged little pill”. Ballard è scelto anche come produttore.
La serenità delle session è incrinata dai rapporti con il manager Tim Collins, che secondo la ricostruzione dei musicisti ha tendenze manipolatore e arriva a dire alla moglie di Tyler, Teresa Barrick, che il marito la tradisce. Il manager viene licenziato nel 1996 e si vendica diffondendo voci sul fatto che i musicisti del gruppo hanno ripreso a fare uso di droga – il successo ritrovato negli anni ’80 è stato propiziato dallo sforzo di ripulirsi. “Decidemmo di non reagire”, scriverà Perry nella sua autobiografia. “Ci interessava solo chiudere quel lungo e intricato capitolo delle nostre vite”. Sostituito Collins con la publicist Wendy Laister, che sarà licenziata a sua volta nel 1999, resta un grosso problema: la produzione del disco fatta fino a quel momento non appare convincente e Ballard viene sostituito da Kevin Shirley, un fonico di origine sudafricana che si sta facendo un nome come produttore hard & heavy e che lavorerà con Dream Theater e Iron Maiden.
Le session riprendono a Manhattan, dove c’è tensione fra il cantante e il nuovo produttore. Il primo vuole studiare ogni dettaglio delle performance vocali, il secondo vorrebbe un approccio più diretto, degno del suo soprannome Caveman, cavernicolo. In ogni caso, prevale l’idea di dare ai pezzi un approccio più rock di quello voluto da Ballard e perciò le versioni già incise delle canzoni vengono ridotte ai minimi termini e poi riarrangiate, un lavoro lungo e minuzioso. Il risultato è un album che alterna momenti fulminanti come “Something’s gotta give”, il cui verso “Does the noise in my head bother you?” diventerà il titolo dell’autobiografia di Tyler, e ballate come “Hole in my soul” e “Full circle” che il cantante padroneggia come pochi altri. Ci sono il riff anni ’70 della title track, uno sfogo che strizza l’occhio al punk intitolato “Crash”, pezzi pop-rock d’impatto immediato come “Pink”, ma anche piccole stranezze come le atmosfere orientaleggianti di “Taste of India”, la tromba di “Ain’t a that a bitch”, gli echi di psichedelia di “The farm”, i fiati di “Falling in love” arrangiati dal padre di Beck, David Campbell. Il disco si chiude con le parole di “Fallen angels” che sembrano riassumere il periodo turbolento degli Aerosmith: “Il Demonio sembra avere trovato la strada per paradiso città”.
Pubblicato nel marzo 1997, “Nine lives” è l’ennesimo successo degli Aerosmith, ma pone fine ai problemi. La copertina di Stefan Saigmeister che raffigura la divinità Krishna con la testa sostituita da quella di un gatto che balla sulle teste del demone serpente Kaliya viene ritenuta offensiva dalle comunità induiste e perciò sostituita da un gatto antropomorfo legato a un bersaglio da circo e fatto oggetto di un lancio di coltelli. Un altro incidente occorre durante il tour. Nell’aprile 1998, mentre la band suona “Mama kin” sul palco di Anchorage, Alaska, il cantante colpisce un ginocchio con la base del microfono e si procura una lesione al legamento crociato anteriore, costringendo la formazione a fermare l’attività. Poco male: quattro mesi dopo gli Aerosmith pubblicheranno il loro singolo di maggior successo di sempre, “I don’t want to miss a thing”, dalla colonna sonora del blockbuster “Armageddon”.