Pearl
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1. Move Over 3:40
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2. Cry Baby 3:56
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3. A Woman Left Lonely 3:28
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4. Half Moon 3:52
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5. Buried Alive In The Blues 2:25
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6. My Baby 3:45
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7. Me and Bobby McGee 4:30
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8. Mercedes Benz 1:46
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9. Trust Me 3:15
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10. Get It While You Can 3:23
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11. Happy Birthday, John (Happy Trails) 1:08
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12. Me and Bobby McGee 4:46
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13. Move Over 4:25
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14. Cry Baby 4:56
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15. My Baby 3:58
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16. Pearl 4:26
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1. Tell Mama 6:47
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2. Half Moon 4:38
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3. Move Over 3:58
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4. Maybe 3:57
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5. Summertime 4:40
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6. Little Girl Blue 5:10
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7. That’s Rock ‘N Roll 5:04
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8. Try (Just a Little Bit Harder) 9:11
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9. Kozmic Blues 5:29
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10. Piece of My Heart 5:22
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11. Cry Baby 6:32
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12. Get It While You Can 7:21
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13. Ball And Chain 8:15
La bellezza delle perle risiede tutta nel loro essere una libera espressione della natura. Ci sono perle, dette barocche,
che possono vantare un fascino ancora maggiore: l’irregolarità della forma, che ne fa delle imprevedibili portatrici di
meraviglia.
In una delle ultime interviste rilasciate nel 1970,
Janis Joplin aveva rivelato di essersi stancata del suo nome di
battesimo: “chiamatemi Pearl”, aveva chiesto.
Non avrebbe potuto scegliere nome più appropriato, la voce più ineguagliabile della storia della musica, che grazie alla
sua sfrontata crudezza -‐ una natura senza filtri, dura e al contempo sublime -‐ ha impreziosito il mondo, e continua a
farlo, come solo i più grandi possono.
Così, l’ultimo album di Janis Joplin prese il nome di Pearl e la forma di un ricco testamento. Uscì nel gennaio del 1971, a
pochi mesi di distanza dalla sua scomparsa prematura.
Per le registrazioni di quello che sarebbe diventato Pearl, il suo secondo album da solista, Janis Joplin -‐ reduce
dall’esperienza non troppo soddisfacente con la Kozmic Blues Band, che l’aveva accompagnata in I Got Dem Ol’ Kozmic
Blues Again Mama! del 1969 -‐ si avvalse della collaborazione della Full Tilt Boogie Band guidata dal chitarrista John Till.
La produzione dell’album fu affidata a Paul Rothchild, storico produttore dei Doors.
L’immagine di copertina ritrae Janis Joplin in una posa festosa, nei suoi caratteristici abiti variopinti, segno
dell’atmosfera allegra che caratterizzò il periodo di registrazione dell’album. Pearl rappresentava un ritorno alle radici
più autentiche e curiose della cantante texana, alle atmosfere dei capolavori incisi con la Big Brother & the Holding
Company, ed un superamento della fase più tradizionalmente soul sperimentata in I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again
Mama!, che con le sue sonorità levigate non aveva troppo convinto gli estimatori storici, quelli che ben conoscevano la
spontaneità di Janis, perla della San Francisco hippie.
Come nei primi album, in Pearl regna sovrana una ricerca fervente delle musicalità più eterogenee. E’ un disco
schietto, composito, ricco di sfumature e dettagli, tutti ugualmente veraci: la miglior fotografia di un’anima
musicale per sua natura insaziabile e capace di tutto. Move Over: Il brano d’apertura, interamente composto da
Janis Joplin, è forse il più irresistibile dell’intera produzione della cantante. Un avvio formidabile, con la batteria
impetuosa seguita da voce e chitarra ardenti, e poi da basso e tastiere in un crescendo contagioso. Move Over
ha quarantacinque anni, ma ancora oggi i piedi di ogni generazione non possono fare a meno di battere con
vibrante entusiasmo al suo ritmo.
Uno stacco esuberante dà il via a Cry Baby, reinterpretazione di un successo soul del 1963 di Garret Mimms and
the Enchanters. La versione di Janis Joplin stravolge la compostezza dell’originale in un’esplosione musicale in
cui l’impegno della voce si spinge verso margini inesplorati. Le corde vocali di Janis si dimostrano, una volta per
tutte, la più significativa espressione, nel canto, della poetica degli anni Sessanta, la miglior traduzione di quello
che per gli strumenti in quel decennio aveva rappresentato la distorsione. Cry Baby è l’ennesima portentosa
epifania di una donna piccola ed insicura che sul palco, come anche in studio, sapeva trasformarsi in una divinità
elettrica.
A Woman Left Lonely Un’eterea introduzione ad opera di pianoforte, voce e basso apre questa canzone, una
confessione a cuore aperto che l’ingresso dell’organo consegna alla tradizione delle più maestose sonorità di
fine anni Sessanta. La donna protagonista del brano è senz’altro Janis, l’eterna Little Girl Blue acclamata sul palco
da milioni di amanti per una manciata d’ore, e poi ineluttabilmente sola nell’affrontare i propri demoni. “Non
bisogna essere neri per saper cantare il blues. Bisogna solo soffrire”, aveva spiegato. E nessuno, davvero, ha
saputo mettere in musica sofferenza e malinconia, con brutale franchezza, come lei.
Con Half Moon si torna all’atmosfera irruente che aveva aperto l’album. E’ un pezzo in cui la dimensione
ritmica regna sovrana, con percussioni incisive e tastiere pungenti. L’intesa tra Janis Joplin e la Full Tilt Boogie
Band è perfetta, e ciò che la cantante aveva detto del nuovo gruppo messo insieme per Pearl diventa
palpabile: “Hanno un suono così corposo che ti ci potresti appoggiare sopra”.
Buried Alive in the Blues è l’unico brano strumentale dell’album, un’esecuzione della sola Full Tilt Boogie Band.
Janis Joplin morì prima di registrare la sua parte. Il pezzo, di per sé allegro e forsennato, è così pervaso da una
malinconia silente: blues nel senso più puro del termine, privato del suo coronamento, orfano della sua più
sublime interprete.
My Baby su innesti di memoria gospel costruisce un canto liberatorio. La prova vocale, ancora una volta
sanguigna e priva di filtri, è affiancata dalla maestosità del solo di chitarra e da piano e organo sempre più ispirati.
Il “my baby” del ritornello vede Janis fronteggiare sé stessa, voce solista e coro, in un’esecuzione incendiaria.
“Se devo cantare in modo tranquillo preferisco non cantare affatto”, aveva dichiarato: canzoni come questa
rivelano tutta la saggezza di una tale scelta.
Me and Bobby McGee: Capita a volte che una cover diventi la “firma” per eccellenza di uno dei suoi interpreti.
E’ il caso di questo brano, scritto da Kris Kristofferson nel 1969 per il cantante country Roger Miller, ed
inizialmente concepito come una tradizionale road story dalle tinte fortemente western. Janis Joplin, ad un anno
di distanza, ne fece un capolavoro di blues rock ed una delle sue canzoni più rappresentative (l’unica, anche, a
raggiungere il primo posto in classifica, dopo la sua morte). Kristofferson, suo ex compagno ed eterno amico,
gliel’aveva cantata tempo prima e venne a conoscenza della sua incisione, la più indimenticabile in una lunga
lista di cover, solo il giorno dopo la sua morte. “Libertà” è una delle tante declinazioni della consapevolezza di
non aver nulla da perdere, scoprono i due amanti protagonisti della canzone: ma è solo nel canto di Janis, che
nel bene e nel male è stato il più libero di tutti, che riusciamo davvero ad afferrarne il significato. Mercedes Benz:
Con Pearl Janis Joplin fece ritorno, trionfalmente, alla sua dimensione più connaturata, quella propria della San
Francisco psichedelica che l’aveva accolta a braccia aperte e ne aveva fatto una delle sue icone imperiture. Così,
il primo giorno d’ottobre del 1970, la cantante entrò in studio per registrare una bizzarra composizione a
cappella ideata insieme al poeta Michael McClure e al cantautore Bob Neuwirth. A meno di un mese dalla morte
di Jimi Hendrix, i tempi erano incerti ma la filosofia hippie ancora invincibile: Mercedes Benz è una celebrazione
gioiosa di valori consapevoli che condannano il consumismo con la forza dell’ironia. E’ anche uno dei brani più
conosciuti ed apprezzati del catalogo di Janis Joplin, la sua ultima perla: quel giorno la cantante lasciò lo studio
e non vi fece più ritorno. Tre giorni dopo morì, lasciando un vuoto mai colmato. Ma Mercedes Benz, col suo
messaggio portentoso, continua a risuonare…
Sulle note di Trust Me continua a profilarsi il ritorno alle atmosfere rock caratteristiche della California di fine
anni Sessanta ed inizio anni Settanta. La ritrovata solarità dell’armonia riesce a sposarsi maestosamente
all’inveterata impetuosità vocale. “You shouldn’t mind paying the price, any price, any price” canta Janis, con la
consapevolezza di chi non ignora di dover presto pagare il prezzo di una vita vissuta proprio come queste
canzoni erano cantate, al massimo.
Get It While You Can: Piano e organo guidano quest’ultimo brano che consacra definitivamente Pearl alla gloria
artistica. “Potremmo non essere qui domani” recita il testo, invitando a cogliere quell’amore che si riesce a trovare sulla
propria strada, squarci di luce sulla tela oscura dell’esistenza. E’ un carpe diem postmoderno, l’anatema elettrico di chi
trovò riparo dalle indifferenze quotidiane negli istanti irripetibili del canto. E’, ancora, un’invocazione allo spirito più
autentico degli anni Sessanta. E così ogni ascolto, anche a distanza di più di quarant’anni, diventa una rievocazione
dalle tinte trascendenti, un’esperienza totalizzante dei sensi nel breve tempo di una manciata di canzoni. Che
continuano a vincere tragedie e storia, consegnate dalla passione di Janis all’eternità.