Riot Act
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1. Can’t Keep 3:38
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2. Save You 3:50
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3. Love Boat Captain 4:36
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4. Thumbing My Way 4:08
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1. You Are 4:28
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2. Get Right 2:39
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3. Green Disease 2:41
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4. Help Help 3:35
30 giugno 2000. 11 settembre 2001. 26 ottobre 2001. Sono tre le date fondamentali che portano al 12 novembre del 2012, il giorno in cui esce il settimo disco di studio dei Pearl Jam. E tra queste quella più importante non è l’11 settembre.
Perché è vero che la coscienza del rock ha rialzato la testa, dopo quel tragico giorno, producendo canzoni, dischi e concerti per elaborare la tragedia e l’attacco al cuore dell’America. Ma, contemporaneamente, i Pearl Jam hanno anche un altro lutto, più personale e contemporaneamente più collettivo, da superare. Nel 2002 è quasi un miracolo che la band esista ancora.
Nell’estate del 2000 i Pearl Jam sono nel bel mezzo di un tour a supporto di “Binaural”. Uno dei più estesi ed intensi, che verrà documentato da “bootleg ufficiali”, un album live per ogni concerto. E’ la prima volta che una band fa una cosa del genere, e ne verranno venduti a millioni, inaugurando una tradizione che i Pearl Jam continueranno anche negli anni e nei tour a venire, e che verrà copiata da molti artisti.
L’unico concerto che non viene pubblicato di quel tour è appunto quello del 30 giugno. La band suona in Danimarca, a Roskilde, ad uno dei festival più famosi e longevi d’Europa. E’ un attimo, e la folla si scatena: 9 persone muoiono schiacciate dalla calca. 26 persone rimangono ferite, di cui tre gravi.
Quella tragedia enorme scuote alle fondamenta la comunità dei Pearl Jam, che penseranno anche alla fine della loro carriera. Invece elaboreranno il tutto scrivendo la canzone più intensa e commovente di questo disco, “Love boat captain”, che cita i Beatles di “All You Need is Love”.
L’altra canzone fondamentale del disco è “I am mine”, e nasce dal 26 ottobre 2001, il giorno in cui il governo americano promulga li “Patriot act”, un decreto di risposta al terrorismo che concede libertà di azione degne quasi della legge marziale, limitando le libertà individuali a favore della sicurezza nazionale.
“So che sono nato, so che morirò. Tutto quello che c’è in mezzo è mio. Io sono mio”, cantano invece i Pearl Jam. Più che di un “Patriot act”, i Pearl Jam pensano ad un “Riot act”. L’album è un “Manual for free living”, come un libretto che qualche mese prima hanno mandato agli iscritti al loro fan club, per ricompattare la comunità: contiene estratti da libri del politologo Noam Chomsky, della scrittrice Arundhati Roy, del politico Ralph Nader (il candidato indipendente spalleggiato da Vedder alle elezioni presidenziali del 2000).
I Pearl Jam non hanno mai fatto mistero delle loro posizioni politiche, e due anni dopo le espliciteranno con il “Vote for change”, un tour assieme a Springsteen, Pearl Jam, Neil Young a sostegno del candidato democratico John Kerry contro la rielezione del presidente George Bush Jr.
Bush vincerà le elezioni, ma intanto già nel 2002, in “Riot act”, i Pearl Jam escono ancora più allo scoperto che in passato, con una delle loro canzoni più apertamente cattive e politiche. In “Bushleaguer” Vedder recita con voce calda e sicure parole di una durezza impressionante rivolte al presidente, accusato di speculare sulla paura degli americani. In qualche concerto del tour successivo la canterà indossando una maschera di Bush, e qualche fan repubblicano se ne andrà scandalizzato, mentre qualche testata prova a montare una polemica che di certo non spaventa la band.
Musicalmente “Riot act” è l’album di una band che si rimette in gioco per l’ennesima volta. La band ricerca una forma di canzone sintetica, senza però tradire la natura chitarristica. Ma per la prima volta la band ha un tastierista, Boom Casper, amico di Vedder, e gioca anche su alti registri. I rock diretti e “alla Pearl Jam” sono solo 3 su 15 (“Save you”, “Ghost” e “Green disease”) e Vedder usa la voce in maniera diversa, giocando molto sui registri bassi (come nella conclusiva ballata “All or none”) o usandola come strumento: in “Arc” c’è solo Vedder, stratificato, in loop. E’ il suo tributo più emozionale alle vittime di Roskilde: poche volte verrà cantata dal vivo, ma non verrà mai inclusa nei bootleg ufficiali.
Qualcuno parla di “Art rock”, al tempo, per “riot act”: ancora oggi si lo trova classificato così, su Wikipedia. Non è il primo disco “strano” dei Pearl Jam, che già in “No code” avevano cambiato le carte in tavola. E, 15 anni dopo, non è neanche giusta quella definizione: “Art rock” rischia di suonare pretenzioso, intellettualoide. Invece i Pearl Jam sono diretti, viscerali. E con “Riot act” dimostrano che il rock è contro, è catartico. In quel periodo ka band, i fan, l’America rinascono, e superando la paura con la rabbia e con la voglia di andare avanti: “Fottetemi se dico qualcosa che non volete sentire, fottetemi se sentite soltanto quello che volete sentire, fottetemi se mi importa”, canta Vedder. Ed è esattamente quello che il pubblico vuole dal gruppo: una scossa. Missione compiuta.