Songs Of Love And Hate
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1. Avalanche 4:58
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2. Last Year’s Man 5:57
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3. Dress Rehearsal Rag 6:02
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4. Diamonds in the Mine 3:48
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5. Love Calls You By Your Name 5:37
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6. Famous Blue Raincoat 5:07
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7. Sing Another Song, Boys 6:10
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8. Joan of Arc 6:20
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9. Dress Rehearsal Rag 5:38
Leonard Cohen è un artista ed un uomo coraggioso ed ostinato, capace di imporre le proprie convinzioni in un ambiente come quello dell’industria musicale poco clemente e soprattutto scarsamente paziente con chi non tollera ingerenze o non si assoggetta a cliché vigenti. Leonard Cohen è un musicista coraggioso e presumibilmente pretenzioso, lo ha dimostrato, dopo pochi anni dall’inizio della sua attività, al Festival dell’Isola di Wight dove affrontò un pubblico valutabile attorno alle 600.000 persone in un orario impossibile, le 4 del mattino. In precedenza, sempre nella notte tra il 30 ed il 31 agosto del 1970 aveva suonato anche Jimi Hendrix che sarebbe morto dopo sole tre settimane: il palco era stato devastato da un susseguirsi di performance e l’organizzazione sollecitò la convocazione di Cohen proprio mentre provvedevano a risistemarlo. Trovarono Cohen che dormiva, ma con estrema professionalità raggiunse il palcoscenico e iniziò la sua performance fatta di canzoni, racconti e discorsi atti ad intrattenere il pubblico. Sotto i jeans ed una sahariana, indossava ancora il pigiama, ma tutto questo non lo turbò, come non lo impaurì quel pubblico che aveva indotto un giovane Kris Kristofferson ad abbandonare la scena perché umiliato e deriso dagli astanti. In realtà l’impianto voci non era stato ancora perfettamente tarato e quindi l’esibizione voce e chitarra era acusticamente inascoltabile, eppoi comunque il texano non avrebbe ricevuto consensi da gente che voleva ascoltare gli Who, i Jethro Tull, i Doors, Sly and Family Stone, gruppi che mal si assortivano con esibizioni acustiche. Leonard Cohen fece la sua parte: deciso, quasi imperturbabile, iniziò accompagnato dalla sua band, the Army, che nulla certo esprimeva del fascino maligno e del concitato movimento di una rock band. Quel concerto è oggi documentato da un album più DVD, “Live at the Isle of Wight”, pubblicato nel 2009, quindi dopo quasi quarant’anni, e lì si può apprezzare l’autocontrollo o l’innata flemma del cantante autore canadese, allora trentacinquenne, catapultato in una situazione convulsa, decisamente a rischio. Come dirà molti anni dopo Kris Kristofferson, Cohen era riuscito “ad incantare la bestia”, e lo aveva fatto con quella sua proposta che molte testate inglesi avevano precedentemente definito ‘depressa’. Aveva cantato successi come ‘So long Marianne’, ‘Bird on the wire’, ‘Suzanne’, ‘You know who I am’ ed altri pezzi tratti dai due soli album che aveva pubblicato fino ad allora:
“Songs of Leonard Cohen” del 1967 e “Songs from a room” del 1969 che gli aveva dato la fama, una fama certo relativa visto comunque l’approccio musicale che proponeva, ed una visibilità più europea che americana, d’altronde la sua era una musica che molto doveva ad una tradizione cantautorale di ascendenza francese.
Fu dopo questa esperienza che Cohen, verso la fine di settembre, entrò in studio a Nashville per incidere il terzo capitolo delle sua discografia, quel “Songs of love and hate” che oltre a confermagli l’adesione di fedeli ammiratori ed estimatori avrebbe varcato soglie nelle classifiche di vendita veramente insperate. A produrre questo nuovo disco era stato ancora Bob Johnston che aveva lavorato precedentemente con Dylan, Simon and Garfunkel e Johnny Cash e vantava uno stile personalissimo di produzione: a Nashville dove soprattutto preferiva lavorare, lui teneva stretti rapporti con la scena musicale locale e sapeva come scovare i musicisti più in sintonia con il suo progetto e con il progetto dell’artista che stava producendo. Descrivere un album di Leonard Cohen è complesso, l’architettura musicale è semplice, affidata ad arrangiamenti molto spesso elaborati dallo stesso produttore, le sonorità sono glabre, esili e riconducono in alcuni casi alla musica popolare, però parlare di folk per l’opera Cohen è sempre stato ambiguo, impreciso. L’espressione di Cohen è sempre alta, niente cede alla banalità o semplicità di testi o elaborazioni pop; lui nasce come poeta, ha pubblicato libri di poesia dieci anni prima di intraprendere la via della musica, i testi sono la sua vera musica e solo assimilandoli, studiandoli si può entrare in quel suo universo caratterizzato dal dolore esistenziale, da una sommessa inquietudine e sofferenza indelebili. “Songs of love and hate” suggerisce i suoi contenuti nel titolo stesso; gli amori cantati da Cohen sono sempre problematici, infidi, contorti, l’amore che trionfa non è previsto, non appartiene al suo mondo o almeno al mondo che cantava in quegli anni. L’album contiene dei brani divenuti classici: ‘Avalanche’, ‘Joan of Arc’ chiaramente dedicato alla figura di Giovanna D’Arco, ‘Sing another song,boys’ che veniva proposta nella versione live incisa durante il concerto all’isola di Wight e su tutte ‘Famous blue raincoat’ ispirata sembra dalla perdita di un impermeabile Burberry con le spalline che il cantante aveva comprato a Londra nel 1959 cui era estremamente attaccato. Nel 1980 Ornella Vanoni la interpretò, su un testo italiano scritto da De Andrè e Bardotti, nel suo album “Ricetta di donna”. Una delle versioni del brano che lo stesso Cohen ha maggiormente apprezzato è quella incisa da Jennifer Warnes che nel 1987 volle registrare un album poi intitolato “Famous blue raincot – The songs of Leonard Cohen”, nel quale interpretava alcune delle perle della produzione del canadese. Assieme duettano in una indimenticabile ‘Joan of Arc’. Erano quelli gli anni nei quali la luminosità della stella di Cohen si stava lentamente affievolendo, e fu probabilmente grazie a questo progetto fermamente voluto da Jennifer Warnes che si ricominciò a guardare verso questo straordinario, quanto schivo personaggio, con una nuova attenzione, con un desiderio sotterraneo di riscoprire un gesto musicale tenue e saldo, forse elitario, in anni in cui la scena musicale era indirizzata decisamente verso soluzioni dissimili. Negli anni ’60 Cohen era riuscito ad imporsi con una musica che non si interfacciava alla realtà frizzante, esuberanteed euforica affidata alla musica beat, al rock di matrice inglese, alla psichedelia; lui non si era schierato in quell’ambito probabilmente per un dato generazionale e per una maggiore affinità elettiva con una musica che citava Jaques Brel oppure Georges Brassens. Aveva seguito con coraggio la sua idea e la sua ispirazione, non si era mai sforzato di essere accettato, ma la sua forza, vedi l’isola di Wight, gli aveva infine dato ragione.