Storia Di Un Impiegato
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1. Introduzione 1:42
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2. Canzone Del Maggio 2:24
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3. La Bomba In Testa 3:59
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4. Al Ballo Mascherato 5:16
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5. Sogno Numero Due 3:12
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6. La Canzone Del Padre 5:12
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7. Il Bombarolo 4:18
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8. Verranno a chiederti il nostro amore 4:21
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9. 5:10
Due anni dopo Non al Denaro Non all’Amore né al Cielo, nel 1973 Fabrizio De Andrè realizzò l’album Storia di un Impiegato, sua prima inconfutabile dichiarazione politica.
A cinque anni di distanza dal Sessantotto il cantautore genovese immaginò la storia di un piccolo impiegato, un oppresso qualunque, un individualista come tanti, che in ritardo si trovava a fare i conti con la lezione del maggio rivoluzionario. I testi scritti assieme a Giuseppe Bentivoglio, riflettono una presa di coscienza che incappa nel tragico personale per funzionare come monito collettivo. Non a caso l’album provocò reazioni molto accese, sferzate dure di colleghi e critici ma anche una lucida autocritica di De Andrè: “L’idea del disco era affascinante. Dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. E ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”, avrebbe dichiarato a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione del disco. Anche per questo le canzoni di Storia di un Impiegato, restarono per poco tempo nella scaletta dei live dell’artista. L’unica eccezione fu la straordinaria Verranno a Chiederti del Nostro Amore, che dalla storia politica dell’impiegato aveva saputo trarre spunto per riabbracciare – senza perdere un tocco d’ironia – slanci di altissima finezza poetica.
Con Introduzione siamo nella pelle dell’impiegato: rivediamo le immagini del Sessantotto, di quei conflitti così ispirati, dei “cuccioli del maggio” che avevano saputo agire. L’azione, la forza di volontà, è ciò che è finora mancato al nostro protagonista; la rabbia non lo ha toccato al punto di provocare una sua reazione . Le cose cambiano quando ascolta uno degli anatemi che avevano accompagnato le lotte di cinque anni prima. Canzone del Maggio è ispirata ad un canto realmente nato per il maggio francese sessantottino (Chacun de Vous Est Concerné, un brano della cantautrice Dominique Grange donato a De André senza richiesta di diritti d’autore). I giovani in rivoluzione rivendicano la responsabilità collettiva: chi durante le lotte e i soprusi del potere ha girato la testa per guardare altrove, non può affatto considerarsi affrancato. Le parole sono forti e coinvolgenti, sono quelle di chi punta il dito senza paura. Il brano culmina nella strofa finale, quella che più di tutte si muove contro la nostra indolenza per ricordarci che questa è una canzone che non ne vuole proprio sapere di restare chiusa nel ’68 : “E se credete ora che tutto sia come prima, perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare, verremmo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte: per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.
Anche l’impiegato è colpito dalla forza di queste parole, ma lui è ormai è un irreparabile individualista con cinque anni di ritardo. La Bomba in Testa ci riporta a lui, alla sua realtà monotona di cose piccole e pessime. E’ ammorbato di buonsenso, ha solo pochi anni in più di quei giovani della Canzone, eppure è invecchiato da una ripetitività estenuante, una convenzionalità asfittica. Comincia a pensare: “chissà ….Ormai sono in ritardo per gli amici, per l’odio potrei farcela da solo illuminando al tritolo chi ha la faccia e mostra solo il viso sempre gradevole, sempre più impreciso”. Da individualista è, quindi, la sua reazione. E da individualista pavido si rifugia nel mondo del sogno, nelle possibilità immaginate. Sogna di essere Al Ballo Mascherato. Si è autoinvitato e si ritrova faccia a faccia con le icone del potere. Divinità ed eroi politici, Dante e i suoi stessi genitori: sono tutti lì radunati, pronti all’incontro fatale con la sua bomba risolutiva. C’è anche un amico che gli ha insegnato l’abc della ribellione; l’impiegato è così in preda ad uno spasmodico bisogno di liberazione che finisce per farlo sedere accanto alle illustri vittime della sua festa esplosiva.
L’avventura onirica continua; Sogno Numero Due vede l’impiegato al banco di un giudice. Quest’ultimo lo sorprende annunciandogli che ha agito , in fin dei conti, nel pieno rispetto delle sue regole: si è fatto a sua volta giudice, condannando e si è emozionato “nel ruolo più eccitante della legge”. E’, dunque, corrotto nel più profondo dell’anima dalla stessa forza oscura alla quale pretende di ribellarsi.
Il giudice emette la propria sentenza: all’impiegato ora spetta un ruolo nella società. Un ruolo che finisce per essere quello del padre che aveva appena sacrificato. Canzone del Padre è l’ultima tappa del suo sogno tormentato, che ora lo vede confinato ad un’esistenza fitta di delusioni. Di eterna piccolezza. Un incubo, dunque, dal quale l’impiegato si risveglia impregnato di sudore. Ha ora trovato la sua risoluzione: è pronto ad agire quando dichiara “io ricomincio da capo”.
L’’impiegato è ormai riuscito a diventare, stavolta davvero, Il Bombarolo. Ha idee chiare e piani precisi, si dirige verso il Parlamento sapendo bene chi colpire. Come ha spiegato De André, la sua è “una bomba vera per ammazzare gente vera, ma la sua abilità era soltanto un sogno”. Così la vendetta si trasforma in un disastro. La bomba scivola via e finisce per colpire un’edicola innocente. Una pioggia di pagine di giornale, con lui che piange sommerso dal ridicolo.
Sui fogli di giornale c’è impressa l’immagine della sua fidanzata – la sua ferita più profonda. A lei il bombarolo fallito, ora ex-impiegato in carcere, scrive una lettera. La storia è un invito al tocco sublime di De Andrè, quello della più fine poesia, che si trova a riemergere su macerie di politica e progetti infranti. Verranno a Chiederti del Nostro Amore canta un sentimento condannato, realmente apprezzato solo nel momento della sua irreparabile fine. Dietro c’è una preghiera di complicità, un’antica intesa da tenere in vita a dispetto degli altri, intrusi dal passo pesante. E’ un accordo toccante richiesto e promesso dall’impiegato alla sola cosa bella della sua vita.
Se la vita dell’impiegato ha ormai esaurito ogni speranza, non è poi così per la sua anima. Il carcere rappresenta il momento dell’uguaglianza, quello in cui tutti gli oppressi soffrono la medesima oppressione. Nelle parole di De André: “l’impiegato non più impiegato scopre un nuovo modo di capire la vita e le cose che lo circondano. Scopre la realtà della parola collettivo e della parola potere”. Così, Nella Mia Ora di Libertà si apre con una strofa che inizia con “Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va”. Ma quando le luci si spengono sulla storia tragica e goffa dell’impiegato, quei versi si sono ormai trasformati: “Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va”. E allora, finalmente, l’ha capito anche lui. L’ha capito e lo canta, finalmente in prima persona, immerso in un coro di pari: “per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”.