Storia Di Un Minuto
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1. Introduzione 1:08
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2. Impressioni Di Settembre 4:20
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3. E’ Festa 4:50
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4. Dove… Quando… 4:06
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5. Dove… Quando… 6:00
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6. La Carrozza Di Hans 5:40
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7. Grazie Davvero 5:50
Nel maggio 1971 la PFM fa un tour italiano insieme ai Black Widow e, soprattutto, agli Yes. Un impegno da far tremare i polsi a un gruppo affermato ma non a Franz, Mauro, Franco, Flavio e Giorgio. Salgono sul palco e partono con una potenza sonora davvero notevole, suonano proprio col calore tipico dei musicisti italiani, però suonano “strano”, non come i nostri gruppi melodici. Scorrono Gypsy degli Uriah Heep, Fligh of the Rat dei Deep Purple, Bouree dei Jethro Tull… poi annunciano un brano che farà parte del loro primo 45 giri, La carrozza di Hans. A ottobre, dopo che la P.F.M vince a inizio giugno il 1° Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze a Viareggio a pari merito con Mia Martini e gli Osanna, esce l’accoppiata La carrozza di Hans e Impressioni di settembre.
A gennaio 1972 la band pubblica il suo primo album, appunto Storia di un minuto, contenente anche le due canzoni già edite, però in una nuova versione.
Un disco che chiarisce bene le loro influenze di marca inglese, King Crimson in primis, abbinate senza remore alla cultura più mediterranea: Dove e quando, suoni classici nella prima parte e jazz nella seconda, Grazie davvero, ballata con piani profondi e differenziati piani sonori e una raffinata orchestrazione di fiati, che potrebbe benissimo essere la colonna sonora di un sofisticato musical. Segnalazione a parte per È festa, pura tarantella rock, uno dei loro maggiori classici. Ricorda Franz Di Cioccio: “È festa, più d’ogni altro brano, ci ha rappresentato nel mondo. Qui spicca con evidenza il recupero del linguaggio della nostra musica popolare. Impressioni di Settembre venne composto sulla base di una intuizione fantastica di Franco: era la prima canzone che non aveva il classico ritornello. Mi correggo: il ritornello c’era, ma era suonato, non cantato. Quell’inciso era talmente bello che ci sembrava di non avere a disposizione lo strumento adatto per farlo. Provammo con il flauto, ma non aveva la forza evocativa, lo facemmo con la chitarra, ma era troppo normale. Mancava lo strumento anche se questo strumento esisteva. Lo avevamo ascoltato in Lucky Man di Emerson Lake & Palmer. Era uno strumento dalle sonorità nuove, simili a quelle delle tastiere e dei fiati. Sapeva di terra, di cielo, di mare e di tutte queste cose insieme. C’informammo e venimmo a sapere che lo importava la ditta Monzino. Si chiamava Moog, dal nome del suo inventore (Robert Arthur Moog: New York, 23 maggio 1934 – Asheville, 21 agosto 2005) ed era composto da tre oscillatori che creavano delle onde da mescolare insieme. Potevi giocare con delle manopole e creare il tuo suono, più acuto, più morbido, come volevi: poteva sembrare una sega, un clarino, un ottavino ma era sfacciatamente sintetico. Come nelle migliori fiabe, arrivò un colpo di fortuna. Incontrammo il signor Monzino quasi per caso, alla “Mostra dello strumento” del 1971. Aveva con se un prototipo di Moog, il secondo, perché fino a quel momento lo possedeva soltanto Keith Emerson, che lo aveva ricevuto dal signor Moog in persona. Al solo pensarci sospiravamo di sconforto: giocavamo ad armi veramente impari. Così guardavamo estasiati lo strumento dei nostri sogni – un modello portatile – convinti che fosse proprio quello che ci serviva Gli chiesi: quanto costa? Uno sfracello e mezzo. E noi uno sfracello e mezzo non ce l’avevamo, però gli dissi: penso che questo strumento potrebbe veramente dare una svolta alla musica italiana. Dallo a noi e ne venderai almeno dieci”. Non so come ma ci diede il moog con cui incidemmo Impressioni di Settembre e fu un botto pazzesco. Era un suono nuovo, una novità per i sensi, una nuova creazione d’immagini e suggestioni. Ci diede una marcia in più Quanti Moog vendette Monzino? Molti più di dieci! Dopo tanti anni di gavetta, avevamo finalmente fatto la cosa per noi tutti più importante: un disco che ci piaceva. Fondendo l’elettronica dei sintetizzatori, le mandole antiche e altri strumenti inconsueti per il rock, avevamo trovato un suono personale e italiano, in grado di potere finalmente competere con quello dei grandi gruppi stranieri.