Ultra (Remastered)
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1. Barrel of a Gun 5:35
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2. The Love Thieves 6:34
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3. Home 5:42
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4. It’s No Good 5:58
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5. Uselink 2:21
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6. Useless 5:12
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7. Sister of Night 6:04
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8. Jazz Thieves 2:54
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9. Freestate 6:44
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10. The Bottom Line 4:26
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11. Insight 6:26
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12. Junior Painkiller 2:11
A metà degli anni Novanta il frontman Dave Gahan stava vivendo un biennio indicibilmente cupo:
dopo aver tentato il suicidio nel 1995, l’anno successivo aveva sfiorato nuovamente la morte per
colpa di un’overdose. Martin Gore non se la passava di certo meglio, trovandosi a fronteggiare le
conseguenze di una pesante battaglia con l’alcolismo. Andy Fletcher, lo storico “collante” del
gruppo, lottava invece con la depressione. E come se tutto ciò non fosse bastato, Alan Wilder nel
’95 aveva deciso di abbandonare il gruppo.
E’ facile immaginare, dunque, la sorpresa che accompagnò l’uscita di un nuovo – piuttosto inatteso
viste le circostanze – album del gruppo, ridotto ad un terzetto per la prima volta dal 1982.
Nel 1996 la band aveva trovato rifugio ancora una volta nella musica, tornando in studio e
decidendo di rimettersi in sesto: il risultato, l’album “Ultra” pubblicato nell’aprile dell’anno
successivo, doveva dimostrare al mondo che i tre di Basildon non erano semplicemente in grado di
reggersi ancora in piedi, ma sapevano reinventarsi coraggiosamente, mettersi in gioco più che mai
e avviarsi incontro ad una incredibile rinascita. Era stato chiamato l’abile producer Tim Simenon, e
per risollevare la voce di Gahan provata dai recenti travagli era arrivata la vocal coach Evelyn
Halus. I risultati stupivano per maturità ed inaudita eccellenza.
L’album della rinascita si apre con una delle più potenti creazioni del trio, il singolo di lancio
“Barrel of a Gun” firmato, come tutti gli altri brani, da Martin Gore. La band rifiuta di nascondere
le proprie ombre , e le affronta a viso aperto tuffandosi di potenza nell’oscurità, rispecchiandosi
nelle confessioni di un moderno poeta maledetto di cui Dave Gahan sa farsi interprete come
nessun altro potrebbe. C’è il passato con le sue ammissioni di colpa, c’è un presente che cerca
pace, c’è il tormento di chi una volta per tutte tenta di fuggire il fuoco opprimente dei riflettori (“I
never agreed to be your holy one”). La musica ne rispecchia la sofferenza con l’uso di una
distorsione ossessiva ed alienante.
Nonostante il graffio aspro di questo inusuale hit, la rinascita segnata da “Ultra” è caratterizzata da
nuove inclinazioni sonore, più mature e delicate. Canzoni come “The Love Thieves” e “Home” ne
sono la prova più evidente. Se la prima, un’intensa ballad puntellata di metafore e riferimenti
biblici, si affaccia su territori inesplorati introducendo magnificamente la fase nuova della voce di
Gahan – trattenuta, magnetica, vellutata -, la seconda si trova a visitare dimensioni più familiari
sotto una luce nuova. Stavolta al microfono c’è Gore e i ritmi si lasciano cullare da influenze trip
hop e dall’eleganza drammatica degli archi.
“It’s No Good” è uno dei brani più affascinanti dell’intero album, non a caso scelto come secondo
singolo . Il pezzo affida il romanticismo del testo a sonorità ipnotiche, con i synth che fanno bella
mostra del più inconfondibile marchio di fabbrica Depeche Mode. I richiami industrial del brano,
dovuti specialmente alla produzione di Tim Simenon, si fanno ancora più evidenti nell’affascinante
strumentale “Uselink”. E’ come se dopo aver salutato Alan Wilder, il membro del gruppo con le
credenziali musicali più rispettate, i Depeche Mode superstiti volessero dar prova del loro
potenziale ancora inespresso attraverso una perla di ricercatezza sonora. Lo fanno dipingendo
suggestioni spaziali, presto violate da beat massicciamente terreni.
La successiva Useless si infiltra nel territorio rock, ospitando una portentosa sezione ritmica: alla
batteria troviamo sia Gota Yashiki che Keith Le Blanc, mentre alle percussioni c’è Danny
Cummings, e Doug Wimbish costruisce linee di basso sinistramente seducenti. Al centro del testo
ci sono ferite e rotture, offese ed ammissioni scandite con voce tagliente. Ancora più oscura è
l’atmosfera di “Sister of Night”, poetico resoconto di una dipendenza . Se i suoni si fanno man
mano sempre più minacciosi, la voce di Dave Gahan si muove con calma inquietante suggerendo
realisticamente insicurezze e disperazione in un prodigio di sfumature dai toni bui.
Le successive “Jazz Thieves” e “Freestate” fotografano i desideri contaminatori del trio. Ancora
corde a sollevare The Bottom Line: stavolta c’è l’ospite BJ Cole con la sua pedal steel a contrastare
sottilmente i futurismi di un’elettronica solo in apparenza minimalista in una delle più toccanti
ballate di Martin Gore, che torna in qualità di voce solista. A chiudere ufficialmente l’album (anche
se i Depeche Mode scelgono poi di nascondere la ghost track Junior Painkiller) c’è un’altra
emozionante ballad, “Insight”.