Violator
-
1. World in My Eyes 4:26
-
2. Sweetest Perfection 4:43
-
3. Personal Jesus 4:56
-
4. Halo 4:30
-
5. Waiting for the Night 6:07
-
6. Enjoy the Silence 6:12
-
7. Policy of Truth 4:55
-
8. Blue Dress 5:39
-
9. Clean 5:31
“If you wanna use guitars, use guitars”. Se vuoi usare le chitarre, usale: il titolo del documentario allegato alla ristampa del 2006 di “Violator” sembra una battuta, e lo è. Ma cela un fondo di verità che racconta bene il periodo che ha portato i Depeche Mode a produrre il loro capolavoro.
Nel 1989 i Depeche Mode arrivavano da una fase di grande successo, ma anche complicata.
Il tour precedente si era concluso con il concerto del 18 giugno del 1988 al Rose Bowl di Pasadena: 60.000 persone, il punto più alto della carriera della band, il primo grande successo americano e un risultato enorme, riempire uno degli stadi più famosi del mondo, per quella che non era una rock band tradizionale.
Ma il punto era proprio quello: il concerto, documentato dall’album dal vivo e dal film “101” generò un po’ di polemica: “Sono assurdi”, scrisse il critico del New York Times, che accusava la band di usare sul palco suoni pre-registrati. “Hanno avuto la faccia tosta di pubblicare un album doppio, ‘101’, che “promette di essere di grande valore per chi colleziona urla del pubblico e chiacchiere tra una canzone e l’altra”.
La band aveva un problema di credibilità fuori dalla cerchia dei propri fan, in un periodo in cui i suoni sintetici stavano da una parte e le chitarre dall’altra, con l’elettronica vista sempre con un po’ di sospetto.
All’inizio del 1989 i Depeche Mode si ritrovano a Milano con il loro produttore Flood. E, un po’ per noia, un po’ per cambiare registro, mutano metodo di lavoro. Dai demo di Martin Gore che sono già canzoni quasi fatte e finite, passano a bozzetti incisi solo con voce e chitarra, con qualche loop, ma che lasciano alla band più spazio al lavoro comune in studio.
Alla fine dell’anno esce la prima canzone: “Personal Jesus” si apre con un grido “Reach out, touch faith!” e un giro di chitarra quasi blues, su cui si innestano beat e una coda elettronica alla fine. Un gospel elettronico, la canzone che dà il tono alla lavorazione dell’album, l’unica di fatto incisa a Milano: il disco viene poi completato in Danimarca.
Nel resto del disco, i Depeche Mode giocano con suoni più consueti (i synth all’inizio di “Halo”, o “Policy of truth”), ma mischiano molto le carte in tavola, come con “The sweetest perfection”, una ballata messa all’inizio di quello che è diventato “Violator”. Persino il titolo è spiazzante (“La più estrema e ridicola espressione heavy metal che ci è venuta in mente…”, scherzano).
E soprattutto centrano la loro più grande canzone di sempre, “Enjoy the silence”, che si apre si con synth, ma si regge anche questa su un giro di chitarra memorabile, su cui Gahan canta quella melodia, quelle parole (“Words are very unnecessary/they could only do harm”). Il tutto reso ancora più memorabile dal videoclip, girato da Anton Corbijn tra le highland scozzesi, la costa portoghese e le alpi svizzere, citando “Il piccolo principe”.
Il risultato è il disco del successo planetario della band, il primo a vendere un milione di copie negli Stati Uniti: arriverà a quasi 5, tutto il mondo. Ma soprattutto è il primo album a portare la band ad un pubblico più trasversale. Con il successivo “Songs of faith and devotion” spingeranno ancora di più sulla parte dark e sul rock, ma “Violator” trova la formula perfetta che unisce il synth e l’elettronica alla carica del rock, con le sfumature della new wave.