Riscoprire Lou Reed
Sebbene l’attività di autore testi e successivamente quella di musicista siano state intraprese da Lou Reed sin dai primissimi anni sessanta, di lui si inizia a parlare con sempre maggiore insistenza quando diviene artefice della nascita dei Velvet Underground. Assieme all’amico chitarrista Sterling Morrison e con il prezioso supporto di John Cale, musicista d’avanguardia gallese trasferitosi da poco a New York per studiare musica classica, Lou Reed assembla una band la cui profonda influenza sulla scena pop rock verrà subito intuita e poi riconosciuta ed esaltata negli anni. Malgrado l’incondizionato appoggio offerto da Andy Warhol, che da abile manipolatore mediatico aiutò la band ad imporsi, i Velvet Undergound avranno una breve esistenza determinata e condizionata da profondi dissidi interpersonali ed artistici. Dopo la british invasion ed il perfetto sottofondo per la swinging London offerto dal sound beat, qualcosa iniziava a mutare e mentre Londra si colorava delle tenui tinte psichedeliche, dall’altra sponda dell’Atlantico i Velvet Underground impersonavano una sorta di antitetica proposta: raccontavano infatti una diversa storia e soprattutto rappresentavano quel clima newyorkese che poco aveva a che fare con la rilassata atmosfera londinese, o con le iniziali sperimentazioni acide dei musicisti della west coast. Finita l’avventura con il gruppo e dopo un periodo di pausa durato quasi due anni, nell’aprile del 1972 Reed pubblica il primo album a suo nome titolato semplicemente: “Lou Reed”. Questo disco dà inizio ad un percorso musicale che conta ad oggi più di trenta album, tra studio e live, cui si possono aggiungere poco meno di una decina di lavori dei Velvet Undreground comprese ristampe con outtakes o interi dischi di materiale recuperato negli anni. E’ una discografia decisamente vasta che deve però essere considerata come una sorta di unicum ed infatti, durante molte delle sue tournée, Reed ha proposto indistintamente brani composti per il gruppo e altri provenienti dall’attività solista. E’ una discografia che necessita di una decifrazione minuziosa, consapevole e motivata, perché il percorso su cui si snoda è pieno di imprevisti, di ostacoli, di complessità insospettate e di un ascolto a volte poco agevole. Malgrado una rispettabilità musicale ampiamente meritata e consolidata in un ambiente artistico newyorkese chiuso e selettivo, e malgrado ampie manifestazioni di gradimento, per le performance e le incisioni dei Velvet Underground, espresse da una critica blasonata, accreditata e snob, “Lou Reed” è un album che ottiene risultati commerciali decisamente deludenti ed una accoglienza fredda, anche da parte di quei critici che avevano sostenuto ed ammirato la band e che ora non riescono a ritrovare quelle motivazioni e quel sound nell’album solista del musicista che i Velvet aveva fondato, voluto e anche plasmato. Dopo questo esordio controverso, forse impersonale, Lou Reed cede alle insistenze della sua etichetta discografica che gli propone di affidarsi ad un nuovo produttore per la realizzazione immediata di un altro disco. A supportarlo in studio ci saranno allora David Bowie e Mick Ronson nel ruolo di arrangiatore, il risultato sarà “Transformer”, l’album più acclamato nell’intera produzione dell’artista newyorkese. La concezione poetica e la visione musicale provengono dall’esperienza con i Velvet, eppure grazie all’assistenza di Bowie e Ronson, la carica eversiva ed alternativa della band viene indirizzata verso un sound decisamente moderno, decisamente personale quanto allineato ad un rock datato 1972. In quello stesso anno Reed vivrà quindi la delusione per i mancati riconoscimenti al suo primo album ed una generalizzata, quasi universale acclamazione per il lavoro pubblicato a soli pochi mesi di distanza, lavoro nel quale si manifestano prepotentemente i fondamenti di uno stile unico e i presupposti per una attitudine compositiva riconoscibile. Gli elementi che “Transformer” condensa, congiunge, collega e fonde mirabilmente sono componenti di una poetica che si sviluppa su temi ricorrenti: la droga e la dipendenza, il sesso e le sue devianze, i rapporti interpersonali ambientati in un universo decadente o in decadimento, le vite di emarginati che si logorano in uno spaccato di degrado urbano. La musica diviene più dura, forse meno sperimentale, decisamente più efficace, eppure nell’album su ogni altra componente spicca la voce, la pasta sonora della voce di Lou Reed che esalta brani destinati a fare la storia del rock: ‘Walk on the wild side’, ‘Satellite of love’, ‘Vicious’ o ‘Perfect day’, una ballad semplicemente impeccabile. L’insofferenza del musicista per considerazioni riconducibili a tenacia o perseveranza espressive, lo accompagneranno e forse danneranno costantemente: nasce così “Berlin” (1973), un concept album difficile, cupo, decisamente affascinante, quanto distante dalle atmosfere falsamente e ambiguamente leggere di “Transformer”. L’anno successivo con il live “Rock n Roll Animal” la caratura del Reed, profeta di una musica in costante accelerazione e mutazione, si palesa nuovamente: il disco contiene soltanto cinque lunghe tracce e salvo ‘Lady day’, ripresa da “Berlin”, il resto delle canzoni proviene dalla produzione Velvet Underground. Il sound è decisamente difforme dall’originale e quel vago umore glam rock che lo stesso Reed non aveva mai apprezzato in “Transformer”, trova il suo preciso opposto in questa incisione dove si manifesta una sorta di violenza chitarristica e timbrica inaspettata. Poi, nell’agosto del 1974 si torna ad atmosfere più pacate e solari con un album elegantemente pop: “Sally Can’t Dance”, che precede un lavoro sperimentale nel quale Reed proporrà, per poco più di un’ora, modulazioni del feedback provocato dalla chitarra elettrica avvicinata all’amplificatore. Un fischio modulato che nulla aveva a che fare con l’idea di canzone o composizione: questo “Metal Machine Music” (1975) è avanguardia allo stato puro; alcuni critici lo hanno inteso come annuncio della dissoluzione del linguaggio che a breve sarebbe stata operata dal movimento punk. La discografia di Reed è sempre stata una sorta di straziante alternanza tra lavori fruibili e fughe verso la ricerca, è così che si incontrano dischi deliziosi sebbene sempre complessi, plumbei e spesso minacciosi come “Street Hassle” (1978), con la stupenda suite da cui l’album prende nome, oppure quell’inaspettato viaggio all’interno di accezioni jazz lette e captate attraverso la singolare ricettività di Reed, concretizzatosi in “The Bell” (1979). Per “The Blue Mask” del 1982, il cantante torna ad un ensamble scarno: soltanto basso, chitarre e batteria per canzoni che alternano rock, pop e riuscite ballad. Definire la musica proposta da Lou Reed rimane compito impegnativo e sicuramente problematico: di certo la sua voce, i temi trattati e il personalissimo approccio alla chitarra ne hanno fatto un icona della musica rock, eppure lui ha rappresentato qualcosa di più e non solo per la costanza con cui ha tentato di rinnovarsi e confrontarsi con tendenze o correnti nascenti, ma essenzialmente perché ha superato un limite, quel delicato confine tra l’essere musicista ed al contempo un intellettuale, consentendo a queste due coscienze di convivere. Il box di 16 album: “The RCA and Arista album Collection”, permette per la prima volta di seguire questo straordinario musicista attraverso l’intera produzione anni ’70 e gran parte degli ’80 del novecento, percorrendo così una ardito sentiero serpeggiante dove si incontrano a volte alcuni ostacoli che non sono assolutamente da eludere bensì da affrontare, perché proprio nelle sue prove più difficili Reed ha sempre donato qualcosa di impagabile ed inestimabile.
ALBUM
Transformer (1972)
E’ il disco che meglio di altri racconta Lou Reed: racconta infatti il suo modo di intendere la musica, consolida l’aura di un autore di testi che sempre confinano con la poesia e manifesta la capacità di mantenere una perfetta integrità pur intessendo le proprie convinzioni creative ad una superba fruibilità. “Transformer” è l’album perfetto, riuscito, denso eppure accessibile, e non è certo casuale che in ogni “The Best” di Lou Reed un notevole numero di canzoni provenga proprio da questo capolavoro indiscusso. Apice inarrivato.
Rock n Roll Animal [live] (1974)
Dopo il successo internazionale di “Transformer” e il parziale ridimensionamento di vendite procurato da “Berlin”, Reed aveva necessità di ribadire il suo indirizzo musicale primario; lo fece alla sua maniera, imponendosi con un live album dove rivisitava quattro brani scritti per i Velvet Underground, in aggiunta alla recente ‘Lady Day’. Cinque brani dove le chitarre e l’essenzialità degli arrangiamenti rimandano ad un sound prosciugato di ogni orpello ed organizzato, soprattutto, in favore soltanto del manifestarsi del rock. Imperdibile.
The Blue Mask (1982)
Lou Reed non ha mai rinunciato ad offrire ai propri album una identità precisa che lo raffigurasse anche in tutte le diverse sue sembianze artistiche. Era stato vicino al glam rock, aveva accarezzato il piacere di realizzare opere personali e complesse, si era permesso un album sperimentale ed un live decisamente rock: con “The Blue Mask” tornava invece alla canzone e lo faceva nella maniera più convincente. Chitarra, basso e batteria per arrangiamenti eleganti, un sound ricercato eppure convenzionale, interpretazioni perfette e coinvolgenti: questi sono gli elementi di un lavoro prezioso quanto immediato e incantevole.
BRANI
Walk on the Wild Side (Transformer 1972)
La canzone di maggior successo di Lou Reed parla della Factory di Andy Warhol, dei personaggi che l’hanno animata, da Holly a Candy, da Jo a Jackie, tutti protagonisti di una avventura artistica cui anche Reed deve qualcosa. Penetrare in questo brano rappresenta la perfetta e migliore introduzione all’intera opera di Lou Reed. Grazia, ambiguità, eleganza, profondità e perché no, l’equivoca strizzatina d’occhio à la Reed.
Satellite of Love (Trasformer 1972)
Con un testo decisamente diverso ed una melodia riconoscibile, simile ma non uguale, il brano faceva già parte del repertorio Velvet Underground nel 1970: Reed lo recupera per le session di “Transformer” e con l’aiuto di David Bowie e Mick Ronson ne travolge totalmente l’atmosfera. Perfetta rappresentazione di come un brano possa manifestarsi nelle più svariate sembianze.
Perfect Day (Transformer 1972)
Il brano perfetto, la ballad che ogni autore avrebbe voluto scrivere, un brano da sempre trasmesso dalle radio malgrado l’inizio lento e malinconico. Probabilmente una canzone che parla d’amore e che ebbe un inaspettato ritorno di popolarità nel 1996 quando fu utilizzata per la colonna sonora del film “Trainspotting” di Danny Boyle nella celebre scena in cui il protagonista va in overdose.
I Love You, Suzanne (New Sensations (1984)
Un ritorno ad atmosfere distese, un brano pop rock leggero e raffinato che restituisce il musicista ad una evanescenza che non gli è solita o propria. Le atmosfere dell’album da cui ‘I Love you, Suzanne’ è tratto, rimandano a lavori come “Coney Island Baby” o allo stesso “Transformer”, ma qui a dominare è un sound allegro, sereno, spensierato ed allineato, per quanto Reed lo possa rendere possibile, con l’inconsistenza degli anni ’80.
Street Hassle (Street Hassle 1978)
Il Lou Reed più concreto, più personale, il meno diretto, il più complesso ed essenziale, il musicista che riesce a costruire una mini suite in poco più di dieci minuti imperdibili. ‘Street Hassle’ è articolata in tre movimenti strettamente interconnessi che si sviluppano in una unica storia musicale con pochissime variazioni timbriche e strumentali. Capolavoro raro e prezioso segnalato da molti critici come uno dei pezzi emblematici di Reed.