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LEGACYPEDIA 4.0 – Settimana #1

12 Feb 2015

Back in Black AC/DC

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E’ il 1980. Alla rock band più amata del pianeta , gli    AC/DC, stanno per accadere due eventi sconvolgenti : il 19 febbraio,a Londra, muore Bon Scott,il cantante del gruppo.Che sia per abuso di alcol o per una congestione dovuta al freddo, (la verità non verrà mai scoperta),la perdita improvvisa devasta  la band che pensa allo scioglimento.Non sanno che qualche mese dopo, a luglio, pubblicheranno  “Back in Black”, che diventerà un disco  di importanza storica nel panorama dell’hard rock mondiale.

Album bellissimo, venderà centinaia di milioni di copie ed è , a tutt’oggi,  il disco più venduto al mondo, dopo “Thriller” di Michael Jackson.
La band è di nazionalità australiana perchè si è formata a Sidney nel 1977. In realtà   i fratelli Angus e Malcom Young, chitarristi e fondatori della band,  e Bon Scott sono scozzesi, mentre il bassista Cliff Williams inglese.
Dopo due mesi di riflessioni, gli Ac/dc decidono di lavorare con un nuovo produttore e scelgono Robert “Mutt” Lange, produttore geniale che in seguito ha lavorato con artisti come  Foreigner, Def Leppard, Bryan Adams e Maroon 5. Robert Lange contribuirà in maniera definitiva a  definire e migliorare il suono della band.

Con un nuovo cantante, Brian Johnson, ex corista di chiesa, grande ammiratore del gruppo,  e una copertina nera in segno di lutto, “Back in black”si apre con “Hell’s bells”, le campane a morte che celebrano l’arrivo all’inferno di Bon Scott.

Il riff di chitarra è uno dei più famosi di Angus Young, ed energia, sudore, forza e musicalità si fondono in questo e tutti gli altri brani di questo disco-capolavoro. Il testo usa termini forti, uragano, pioggia battente, fulmini e sensazioni oscure, ma il brano sembra quasi un inno alla vita e alla continuazione di una strada cominciata tutti insieme.

Dopo questo sentito e doveroso omaggio alla memoria, il disco continua con uno sfolgorante trittico uptempo :

“Back in black”si apre con il riff rock metal più bello e più conosciuto di tutti i tempi, la composizione del pezzo e l’arrangiamento sono di una qualità assoluta, ed il brano ha aperto una nuova era nella storia della musica. “Back in black” è oltraggiosa, sensuale, aggressiva, potente, viscerale, vitale. Il testo irriverente, la voce di Johnson elettrizzante, e la frase “I’m back”, (Sono tornato) suona come un omaggio alla sempiterna presenza di Bon Scott nel gruppo.

“You shook me all night long”, è un  esplicito inno al sesso, fu il  vero singolo estratto per il quale fu realizzato anche un video.

“What do you do for money honey”, con la sua sorprendente parte corale ha un  finale blues, e ancora di influenze blues si parla in “Given the dog a bone” dove Angus  Young  viene addirittura avvicinato a B.B. King, chitarrista che Young ha sempre ascoltato e amato. tutti i brani del disco sono in realtà una celebrazione alla vita,  al sesso e alla ribellione, capisaldi del rock and roll in generale ma che in quest’opera raggiungono una compiutezza di espressione musicale ed artistica che ha definitivamente consacrato di Ac/Dc ad icona rock di tutti i tempi.

“Shoot to thrill” altro inno al sesso,fu allora criticato dalle femministe perché nel testo recita “too many women and too many pills”, rendendo la figura femminile un oggetto di piacere al pari di droghe o alcolici.

Il brano che chiude l’album, “Rock and roll ain’t noise pollution”, fu il singolo tratto dal disco che raggiunse il posto più alto nella classifica americana.

Il disco è stato incluso nella lista dei “1001 dischi da ascoltare prima di morire”, un libro di reference musicali di Robert Dimery.


 

Creuza de ma Fabrizio De Andrè

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Esce nel 1984 “Creuza de ma”, un disco capolavoro prodotto da Fabrizio de Andrè e Mauro Pagani, musicista, polistrumentista, arrangiatore, già fondatore della PFM.
Difficile raccontare  quest’opera che, per profondità e vastità può essere compresa solo ascoltandola.
Le canzoni sanno di mare, di terre mediterranee, di nuovo e di antico, di africa e balcani, di voci di uomini e donne, e di orizzonti.
E per parlare di civiltà così diverse ma così uguali , nelle storie,nel sentire, l’uso del dialetto genovese , difficile da capire eppure così musicale, universale, rende perfettamente l’idea di questa comunione profonda e arcaica,e risolve certi concetti che perderebbero efficacia se descritti altrimenti.
Tutte le canzoni sono accompagnate da strumenti di tradizioni popolare che provengono dal mediterraneo ,dal medioriente e da altre parti del mondo a sottolineare questa umanità sorella.

L’album si apre con “Creuza de ma”, che in dialetto genovese  indica una mulattiera, una piccola strada  di passaggio che portava dalla collina al mare.
Il brano è introdotto dal suono della gaida, strumento a fiato antico, di origine mediorientale, ed il canto è sostenuto da sonorità mediterranee e intervallato dal bouzouki. Il coro tra le strofe è un canto dolente che rammenta rassegnazione e fatica, il canto antico della gente di mare.
Protagonisti i pescatori, visti da terra come stranieri, ombre di cui non ci si può fidare, condannati a viaggiare, che quando sono a terra corrono a puttane e a bere alla “Taverna dell’Andrea”, una “terra di mezzo” tra loro e quelli della terraferma . L’unico legame con la terra è una corda, marcia di  acqua e sale , questo mare che presto li riprenderà con sé.

“Jamin-a” racconta di una regina, una prostituta, una dea del sesso e le sue notti di passioni erotismo e sudore, sogno di ogni uomo in mare. E l’erotismo ipnotico dei movimenti di Jasmin-a sono sottolineati e accompagnati dai suoni  dell’oud del bouzouki su ritmi e flauti mediorientali che scivolano e suggeriscono stanze chiuse nella penombra rifugio di uomini e donne dalll’alba dei tempi.

“Sidùn” è Sidone, città del Libano rasa al suolo dalla guerra. Una madre piange la morte del proprio figlio, e il suo dolore è quello di migliaia di altre donne e madri che in migliaia di altre guerre sono state “selvaggina” di soldati, bombe e politici, e hanno pianto la loro disperazione in migliaia di lingue diverse. Qui, unite dal dialetto genovese che con le sue asperità e la sua dolcezza misteriosa si unisce, attraverso la voce dolente di De Andrè, a tutte le altre voci, sfociando in un coro finale che è preghiera.
L’aria si fa più leggera con “Sinan Capudàn Pascià”, che accompagnata ancora da ritmiche d’oriente e di mediterraneo racconta la storia del rinnegato  marinaio genovese Cicala, che nel 1400 fu prigioniero dei turchi ma che per capriccio di fortuna ebbe la ventura di diventare Gran Visir , e per “il luccicare delle monete al sole passa a bestemmiare Maometto invece del Signore ”

“A pittima” ci accompagna negli stretti vicoli di Genova dove si aggira la sgradevole figurina esile della “Pittima”, figura appartenente alla Genova antica, specie di esattore di crediti.
La ritmica sembra voler sottolineare l’incedere incerto dell’ometto fragile e spaventato, costretto a cercare timidamente di farsi pagare. E il canto di Fabrizio de Andrè sembra provare simpatia e pietà per il protagonista della canzone.
Il ritmo si fa popolare e festoso come in un ballo in ” A Dumenega”, brano che si chiude con un bellissimo assolo alla chitarra di Mussida, (PFM) ,è la  celebrazione del giorno di festa, in cui non si lavora, in cui le puttane di Genova escono dal loro quartiere chiuso per la passeggiata “libera”, e arrivano al porto, che sa di alghe e di sale, e si mescolano con i notabili della città che gli gridano contro. Gli stessi notabili che, con i soldi provenienti dalle case chiuse pagano i lavori portuali. Ipocrisia,e la stessa ipocrisia dei benpensanti viene smentita dal finale della canzone, che rivela che tra quelle puttane c’è anche la moglie di uno dei pii cattolici a passeggio.
E si ritorna in un clima più raccolto, pensoso, intimo e sospeso come l’orizzonte in “D’a me riva” che chiude l’album. Il marinaio, il pescatore riprende il mare e si allontana. Con lui, il rumore del vento, poi il mare aperto.

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