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Legacypedia 4.0 – settimana #17

01 Jun 2015

EDOARDO BENNATO – LA TORRE DI BABELE

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“Siete o non siete i padroni della terra?” E’ questa la domanda che Edoardo Bennato pone alla base della sua terza opera, l’album “Torre di Babele”, pubblicato nel 1976, che dopo “Non farti cadere le braccia” (1973) e “I buoni e i cattivi”, focalizza una volta per tutte le tematiche testuali e sonore del cantautore napoletano. Da qui si ripartirà poi per “Burattino senza fili”, e tutti gli altri album che sono pietre miliari nella storia del cantautorato di denuncia in Italia. Insieme a Rino Gaetano, Stefano Rosso ed un certo filone percorso da Ivan Graziani, Bennato è uno dei maggiori attori ed autori che negli anni ’70 ed ’80 si servivano della musica e dell’ironia, della rabbia smussata in sarcasmo pungente, del paradosso e a volte del surrealismo, per segnalare il malcostume ed i vizi, le viltà ed i trucchi di chi manovra le fila del potere, in tutti i campi.
In copertina, la torre di Babele, disegnata dallo stesso Bennato, racconta l’evoluzione dell’uomo, ma lo fa salacemente attraverso gli strumenti di morte e violenza che si sono succeduti nei secoli, dalla clava dell’ominide di Neanderthal, alla base, fino ai missili puntati al cielo.
Apre l’opera Il rock and roll de “La torre di Babele”. Il sax di Robert Fix gioca, sottolinea e risponde al fraseggio nervoso ed urgente del cantautore napoletano, che intervalla il canto con l’armonica a bocca ed il kazoo.
I musicisti che collaborano alla registrazione dell’album sono di prim’ordine: Roberto Ciotti alla chitarra, Gigi de Rienzo al basso, Lucio Fabbri al violino, Tony Esposito alle percussioni, e le canzoni sprizzano energia ed entusiasmo.
La torre di Babele è il simbolo del potere dell’uomo, niente può fermarlo, i segreti della natura, della terra e del cielo sono i suoi, e mentre il rock’n’roll indiavolato si snoda, Bennato usa come elemento ritmico i suoi vocalizzi caratteristici, grida selvagge in falsetto portano al compimento la canzone in un appassionato ensemble finale.
“Venderò” è una folk ballad di chiara ispirazione dylaniana, i suoni acustici della chitarra e dell’armonica sono gli unici elementi su cui poggia il bellissimo testo, scritto da Eugenio Bennato, fratello e cantautore-­‐ uno dei fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare – che narra la storia di chi vende la rabbia , la fantasia, la pazzia , per far parte del “gioco ”, perdendo pian piano i propri colori e la libertà. I temi di “Burattino senza fili” sono già sulla carta.
Con “Eea” si torna ai ritmi del rock , e sempre sul filo dell’ironia si racconta di una corsa di un autobus senza freni, pronto a schiantarsi in un burrone. Metafora della situazione politica del Belpaese, peraltro sempre attuale? E mentre i passeggeri cantano allegramente, il guidatore si catapulta fuori salvandosi la pelle, chissà com’è.
“Franz è il mio nome” narra di un tipo che vende una merce preziosa: la libertà, ti fa passare da una parte all’altra della città (la Berlino prima della caduta). Franz ricorda Lucignolo, ed infatti ecco far capolino il Paese dei Balocchi e Pinocchio, che sarà assoluto protagonista dell’album seguente, come se l’opera tutta fosse legata da un filo invisibile ma tenace.
L’arrangiamento è acustico ma grandioso, opulento, seppure oscuro e foriero di presentimenti sinistri. L’interpretazione di Bennato è plateale, rocambolesca, un imbonitore che ti venderà…. nulla, in cambio di tutto ciò che sei.
“Ma chi è” è un’immersione in un coloratissimo e affollato mercato partenopeo. Le percussioni di Tony Esposito sono assolute protagoniste , insieme alla domanda “ma chi è?” che il cantautore ripete, carica di volta in volta di colori diversi. Fastidio, curiosità, vivere comune, gioia popolare, diffidenza e spirito del sud si raccontano da sole in questo bazaar di suoni, suggestioni e voci.
“Viva la guerra” riprende il tema della cover, un’amara santificazione della guerra, che tutto risolve e che ci libera dai cattivi, Andamento sincopato e ritmato, chitarre pianoforte e splendide percussioni, testo sferzante , il brano chiude con gli archi di Lucio Fabbri.
“Cantautore” conta sulla collaborazione della Old time Jazz band. Ripresa dal vivo, si occupa della figura del cantautore, e sono guai, perchè la penna di Bennato procura più ferite di mille spade. La figura “eroica”, splendente senza macchia e senza paura di chi scrive e fa musica è messa alla berlina. Autoironia? Attacco ai media? Agli addetti ai lavori? Agli altri colleghi che a volte si sono presi troppo sul serio?
A tutto e a tutti si direbbe, al grande circo in cui si muovono figure non sempre nitide e cristalline, spesso vittime del loro stesso narcisismo . Il pezzo accelera in un finale demenziale, sempre più vorticoso, una girandola trascinante e coinvolgente.
“Quante brave persone” è un blues pensoso, insolente, magistralmente commentato dalla chitarra fluida di Roberto Ciotti.
L’armonica a bocca suonata dal cantautore scalda e rende il clima evocativo. Ma quante brave persone, chiuse per benino dentro le loro casette linde mentre fuori l’inferno impazza , ma chi se ne importa, l’importante è che qui si stia al calduccio e nulla ci raggiunga…. ancora ironia sferzante, sottintesa, accennata ma che giunge diritta allo scopo.
E’ tutta fuoco “Fandango”, un bolero operistico, un tango sgangherato, suonato con perizia e maestria, una danza sulle parole che mitragliano, raffiche di frasi nonsense, un racconto di una donna che si cuce addosso bandiere e diventa tutti i giorni “più cretina”.
Un film, uno scorrere di immagini e personaggi confusi , colori e situazioni, assolutamente godibile. Chiude il siparietto-­‐ charleston “Cantautore, ma non è giusto”, velocissimo caleidoscopio con il quale Edoardo Bennato si congeda dal pubblico, promettendo nuove visionarie composizioni. E non deluderà.


ALAN PARSONS PROJECT – EYE IN THE SKY

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Nel 1982 il collettivo di musicisti noto con il nome di Alan Parsons Project diede alle stampe il suo sesto album, destinato a diventare il più grande successo del gruppo. Anche Eye in the Sky fu registrato agli Abbey Road Studios, proprio dove Alan Parsons aveva mosso i primi passi come tecnico del suono lavorando alla produzione di storici capolavori (tra gli altri, Abbey Road e The Dark Side of the Moon). Il suo capolavoro è da identificare proprio con Eye in the Sky, straordinaria intesa tra
l’estro ambizioso del Project e l’efficacia di melodie pronte a diventare tra le più conosciute ed apprezzate di un soft rock improntato al prog. Eye in the Sky è un viaggio da scoprire e riscoprire, una rivelazione di mondi interiori ed esteriori dal fascino senza tempo.
Sicuramente Alan Parsons ed Eric Woolfson, al momento della composizione di Sirius , che apre l’album, non potevano immaginare il successo che lo avrebbe avrebbe investito . Ma a dispetto dell’atmosfera eterea e della produzione raffinata, Sirius è diventata un must dei più disparati incontri sportivi americani e inglesi, una presenza fissa in film, serie tv e spot pubblicitari. Ovunque la si (ri)trovi, Sirius è l’ideale colonna sonora delle grandi occasioni, l’ingrediente irrinunciabile quando c’è
da creare l’atmosfera per un inizio in pompa magna.
Sirius lascia la scena a Eye in the Sky, il più grande successo degli Alan Parsons Project. Canta Eric Woolfson, che insieme ad Alan Parsons è autore di tutte le tracce dell’album. La narrazione è affidata ad un amante, forse onnipotente , in grado di prevedere ogni mossa ed ogni pensiero dell’intero mondo sottostante. E’ come se, per mezzo della voce assorta di Woolfson parlasse l’occhio di Horus rappresentato nella copertina dell’album.
Uno slancio ritmico ci accompagna nel mondo fantastico di Children of the Moon. Stavolta al microfono c’è il bassista del Project, David Paton. Quello della canzone è un vagabondaggio immaginifico fatto di frasi evocative. La canzone cerca di risvegliarci dal torpore delle sonorità dei brani precedenti: allora il ritornello di Children of the Moon diventa una incitazione, una scossa aiutata dall’incedere energico di batteria e trombino.
L’album torna poi nella propria forma di sogno in musica sulle note di Gemini. A cantare stavolta c’è Chris Rainbow, frequente collaboratore del gruppo: alla sua voce è affidata l’elencazione di sensazioni ed azioni sospese in un sortilegio sussurrato. I suoni si muovono nelle più delicate atmosfere prog, rivelando magie cristalline.
I tempi si dilatano con quella che è forse la canzone più emozionante dell’intero album, Silence and I in cui Il Project torna ad affidarsi alla voce dolente di Woolfson per raccontare il mondo dal punto di vista di un uomo dalla sensibilità estrema. Protagonista di questo brano è la capacità di saper leggere tra le righe della realtà quotidiana.L’elegante esplosione musicale fa da voluto contrasto al Silence compagno e complice del protagonista, e cerca così di raccontare quanta ricchezza si nasconda nei silenzi delle anime sensibili.
Un nuovo salto stilistico, ed è il momento di You’re Gonna Get Your Fingers Burned, contrappunto scanzonato alle introspezioni pensose di Silence and I. La ritrovata energia -­‐ pop rock in salsa 80s -­‐ è un’ulteriore conferma dell’eclettismo dei membri dell’Alan Parsons Project. Con You’re Gonna Get Your Fingers Burned il gruppo si diverte e diverte, guidato dalla voce trascinante del cantante Lenny Zakatek.
Con Psychobabble troviamo invece al microfono Dave Terry, l’”Elmer Gantry” della band inglese Elmer Gantry’s Velvet Opera. La sua performance è sferzante, l’energica punta di diamante di un brano che dona all’album un groove irresistibile. Particolare menzione merita il tosto lavoro al basso di David Paton. Le tastiere rincorrono le loro origini prog, ritmiche e voce giocano con un’attitudine rock, ed il tutto è amalgamato dallo spirito degli anni Ottanta più divertiti.
Mammagamma è di nuovo una parentesi strumentale. L’incedere convinto di basso e batteria fa da tappeto alla chitarra di Ian Bairnson e di tastiere e synth suonati ecletticamente dai due autori Parsons e Woolfson. Suggestiva ed avvincente, Mammagamma sembra sottolineare con fierezza che non ha bisogno di parole: pensa a tutto la musica, capace di dipingere le fantasie più incredibili col solo potere dell’evocazione.
Un’introduzione affidata ad un basso sognante, e poi la voce di Lenny Zakatek dà il via ad una Step by Step che sa dividersi tra le riflessioni introspettive del testo e l’energica sollecitazione della musica.
“Move, move” incita Zakatek supportato dall’impegno pressante dei cori…Step by Step è una nuova scossa dal torpore , un invito all’azione travolgente e cerebrale.
Per il finale ,Old and Wise raccoglie pensieri e confessioni alla fine di un lungo percorso. In questo caso, l’avventura in questione è la vita. La musica è più che mai teatrale ed il testo, così toccante, è affidato alla voce matura di un’ospite d’eccezione:Colin Blunstone, il frontman degli Zombies. Old and Wise è soprattutto il saluto di un album che sulla vita ha voluto riflettere in profondità.

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