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Legacypedia 4.0 – settimana #20

02 Jul 2015

TEN – PEARL JAM

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Siamo agli inizi degli anni ’90 e nella città natale di Jimi Hendrix (Seattle) c’è un certo fermento nella scena rock locale, cominciato nella seconda metà della decade antecedente, denominato “grunge”.

Sebbene Nevermind dei Nirvana fu l’album manifesto grazie all’impatto sonoro energico ed innovatore e alla personalità di Cobain e soci, non da meno fu, nello stesso anno, Ten, ma per motivi più legati alle affinità del loro sound col rock più classico.

Infatti i Pearl Jam hanno un piglio più hard rock e un approccio meno punk.

Attivissimi sul piano sociale, con un atteggiamento quasi da anti-divi, riuscirono ad inserirsi nel movimento grunge solo gradualmente.

Con gli arrangiamenti supportati da due chitarre ed il suo vocabolario armonico piuttosto ampio, Ten  spazia quindi su sonorità tipicamente “mainstream”.

La produzione viene affidata a Rick Parashar (Temple Of The Dog, Blind Melon, Litfiba)

Lo stile vocale di Vedder è originale e riconoscibile e i testi delle canzoni parlano di rigorosa introspezione personale: dalla solitudine alla depressione fino ad arrivare al desiderio di suicidio e di omicidio, pur senza tralasciare anche i problemi sociali.

Tra i singoli estratti da questo album c’è “Alive”, brano efficacissimo, forse il brano più famoso dell’album: una lunga ed epica cavalcata rock, che ruota attorno a un immortale giro di accordi per poi lanciarsi nel finale in una jam che pare non finire mai, arricchita da un bellissimo assolo di Mike McCready, che ricorda vagamente “Free Bird” dei Lynyrd Skynyrd.

Scritta da Vedder insieme a Stone Gossard, la canzone parla del momento in cui egli scopre che suo padre non è quello biologico e che è anche il capitolo iniziale di quella che è divenuta famosa come la “Momma-Son Trilogy”, contenente “Once” (traccia di apertura di questo album che parla di un uomo che crescendo, impazzisce, diventando un serial-killer) e da “Footsteps” che qui non appare ma che è stata la b-side dell’altro singolo “Jeremy” (traccia 6), l’altro singolo che ha dato fama internazionale al gruppo, è una ballata dolente ispirata a un vero fatto di cronaca: un adolescente americano che, armato di pistola, aveva fatto strage dei suoi compagni di classe, per poi togliersi la vita.

“Why Go” (traccia 4), brano graffiante, tra le cose migliori del gruppo, racconta di una ragazza rinchiusa in una clinica dai genitori perché scoperta mentre fumava uno spinello. “Once”, feroce incipit dell’album, è il flusso di coscienza di un serial killer; “Even Flow” (traccia 2) è un trascinante brano rock, che si concede una parentesi psichedelica nella parte centrale, dove Vedder parla delle dure condizioni di vita di un senzatetto.

“Porch” (traccia 8) e “Deep” (traccia 10 che parla di una ragazza che ha subito violenza sessuale) sono i brani che si staccano più dal tipico suono del gruppo: se la prima si avvicina al punk, anche se poi nel ritornello torna a essere melodica ed epica in stile Pearl Jam, la seconda invece tenta un’incursione quasi metal, più consono, forse, agli Alice In Chains.

Non mancano, infine, momenti più intimisti. “Black” (traccia 5) è una splendida ballata: la storia di un amore finito, “sfumato in nero”, che si lascia andare a un lungo, psichedelico finale, in cui emerge anche un pianoforte. “Oceans” (traccia 7), altro singolo estratto, parla della passione di Vedder per la tavola da surf ed è contraddistinta da fragorose chitarre acustiche e da un ritmo animalesco.

Molto psichedelica anche “Garden” (traccia 9), ricca di riferimenti religiosi.

“Release”, ha un incedere lento d’atmosfera, quasi mistico, che si trasforma poi in un’epica cavalcata e chiude il sipario sul disco, con una struggente preghiera di Vedder al padre scomparso.

La forza dell’album è il suo essere (ancora oggi) così incredibilmente senza tempo.

Il sound di “Ten” è granitico e lontano mille miglia da ogni moda: col tempo la band maturerà, cambierà coraggiosamente strada (non vendendo più milioni di copie), ma non raggiungerà più le vette di passionalità e potenza dell’esordio.

“Ten” è uno degli album più amati e importanti dell’intera scena grunge e ha aperto le porte del circuito “mainstream” a decine di altri gruppi.

 


AMERICANA – THE OFFSPRING

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Decisamente l’album di maggior successo commerciale della band californiana, proveniente dalla scena punk underground anni ’90 e firmata dalla Columbia dopo il successo (quasi inaspettato) di 4 anni prima di “Smash”, su etichetta indipendente Epitaph.

Seppur dopo aver ottenuto un contratto con una major, i 4 hanno saputo mantenere intatta la loro integrità e il loro spirito, nonchè l’ispirazione compositiva, ma c’è voluto un album di transizione a frapporsi tra i due (Ixnay On The Hombre) prima di riuscire a superare “Smash”.

Lo spirito della band è quello di ridicolizzare alcuni stili di vita tipicamente americani, con grande efficacia ed ironia al limite del satirico.

La produzione è affidata al sagace “Dave Jerden (Alice In Chains, Jane’s Addiction, Fishbone).

Con Americana, la band espanse il proprio suono, approdando ad un “pop punk” ancor più accessibile, cercando di rendere punk anche i generi musicali più distanti dal medesimo.

Dall’album furono estratti 4 singoli di gran successo mediatico, a cominciare dall’esplosiva e geniale “Pretty Fly (For a White Guy)” (traccia 4) contenente lo stesso intro di “Rock Of Ages” dei Def Leppard, accompagnata da un video esilarante.

Seguono la marcetta ironica di “Why Don’t You Get A Job” (traccia 11) che ricorda moltissimo “Ob-La-Di, Ob-La-Da” dei Beatles, la brillante e tirata “The Kids Aren’t Alright” (traccia 5), efficace inno hardcore generazionale, con la mirata intenzione di parafrasare gli Who di 30 anni prima e in ultimo la corposa e melodica “She’s Got Issues” (traccia 7), brano che parla di una donna che si lamenta, ma che non fa niente per risolvere i propri problemi.

Tra gli altri brani dell’album spiccano l’apri-pista “Have You Ever” (traccia 2), brano tirato e melodico in perfetto stile Offspring, la cover/parodia della famosissima “Feelings” di Morris Albert (traccia 6), la title-track “Americana” (traccia 12) e la successiva “Pay The Man” (traccia 13), il brano più lungo e intenso dell’album, dall’insolita atmosfera vagamente arabeggiante, che nel finale riprende “Pretty Fly” con un arrangiamento “mariachi”.

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