News

Legacypedia 4.0 – settimana #21

09 Jul 2015

FRANCESCO DE GREGORI – BUFALO BILL

PD74046.JPG

Nel 1976 Francesco De Gregori, reduce dal grande successo dell’album “Rimmel”, pubblica
“Buffalo Bill” e privilegia uno stile musicale ancora più scarno ed essenziale, come a voler rifuggire
dal tumulto e dal clamore suscitato dall’album precedente ed abbassare i toni trionfalistici propri
della scena pop , che non gli appartengono.
Sono anni storicamente difficili, e come sempre il cantautore romano trae ispirazione da cio’ che
vive e che vede, storie di umanità dolente, di vite ai margini, e racconta col suo linguaggio, così
poetico, definito “ermetico” da molti, attaccato da altri ,eppure capace di comunicare , eccome,
perchè intere generazioni cantano e si riconoscono nelle sue strofe.
“Buffalo Bill”, è ormai alle cronache, è suggerito all’autore da diverse suggestioni: un’opera di Otto
Dix pittore espressionista , che nella sua “American riding act” mostra la figura epica e al tempo
stesso grottesca e commovente di Buffalo Bill a cavallo, e dal film “La ballata di Cable Hogue” di
Sam Peckinpah, che racconta il tramonto della gloriosa America del Far West.
La copertina del disco è tratta da un calendario del 1948 di Gil Elvgrin e raffigura una pin up vestita
da cow girl.
E l’America è il filo che lega alcuni dei brani che sono nell’album, come “Buffalo Bill”, il celebre
cacciatore , grande avventuriero statunitense , che finì i suoi giorni come attrazione di un circo,
triste ombra baffuta di ciò che era stato.
Un altro perdente meraviglioso, come spesso racconta De Gregori? Un eroe di un tempo che non
c’è più? Un simbolo di una civiltà che non potrà che tramontare?
All’ascoltatore la libera scelta. Il pianoforte e la chitarra (suonata da Ivan Graziani), sono i
protagonisti assoluti -­‐ con la batteria, il basso e le tastiere in secondo piano-­‐ , di un
arrangiamento volutamente sobrio, sul quale poggia il bellissimo racconto di un uomo che ha
vissuto tra sogni, eroismi , ed è stato travolto da un avvenire che corre (come un treno) e travolge
tutto.
La voce di De Gregori è morbida, asciutta, un poco ritrosa, evocativa di immagini bellissime,
soffuse di tristezza e di partecipazione.
“Il giovane esploratore Tobia” racconta di un boy scout , un ragazzo perfetto che fa il suo dovere, e
lascia tutto in ordine mentre il mondo fuori è un caos senza alcun senso.
Composta insieme a Lucio Dalla, contiene anche una citazione di “In the summertime” di Mungo
Jerry. La canzone è piacevole, scorre via morbida un accordo dopo l’altro, il pianoforte commenta,
le chitarre sostengono ritmicamente questa storia narrata con tono minimale e una qualche
traccia di irridente ironia, sottolineata dai cori finali.
“L’uccisone di Babbo Natale”è una favola obliqua. Protagonista Dolly , figlia di minatori, e un figlio
di figlio di minatori. Le esperienze folk vissute all’inizio della carriera musicale con Caterina Bueno,
e le influenze dylaniane, si fanno sentire. Il racconto si snoda sulla sola chitarra acustica, la melodia
è ripetitiva e senza ritornello, è più importante il fluire delle immagini di Dolly e del suo amico, che
uccidono Babbo Natale, forse ancora una volta simbolo della società occidentale ridente e perfetta
che regala e regala e non regala nulla. I due ragazzi uccidono Babbo Natale, e mentre la neve
comincia a cadere, tornano a casa dai genitori.
Ancora De Gregori è capace di immagini bellissime, come la ragazza che pulisce il sangue dalle
mani del ragazzo “con una fetta di pane”, evocativa di infiniti significati . Come sempre, il musicista
romano racconta e lascia la libertà ad ognuno di noi di spaziare nel nostro mondo interiore, e di
interpretare e vivere la sua musica ognuno a proprio modo.
Le Baba Yaga, coriste molto in voga in quel periodo, e per la verità, molto brave, aprono “Disastro
aereo sul canale di Sicilia”.
Precorre i tempi , De Gregori, parlando di aerei perduti nei cieli siciliani , vengono i brividi se si
pensa ad Ustica, pochi anni dopo, e di giovani militari americani ai comandi, e di altri misteri ed
omicidi che sono tessuto della nostra storia , mai dipanato.
Il tono della voce è urgente, racconta, denuncia, partecipa al dolore e al mistero, e resta a
guardare insieme a noi.
Ha un andamento avventuroso “Ninetto e la colonia”, che narra la storia terribile di un bambino
ucciso in un cinema . Ninetto”scemo” è un altro meraviglioso perdente, di quelli che, perdendo
vincono ed acquistano una luce eroica indimenticabile, come anni dopo faranno i fuochisti o i
passeggeri di terza classe del Titanic.
Il finale stringato ed improvviso sottolinea la durezza e l’ingiustizia della storia.
“Atlantide” ha un’atmosfera sospesa e sognante, rarefatta ed emotivamente toccante. Ispirato
ancora una volta da Bob Dylan nella composizione, Il cantautore con poche rarefatte immagini
costruisce la storia di un uomo “ che ha un cappello pieno di ricordi e ha la faccia di uno che ha
capito”, insuperabile, come l’immagine della donna di cui era innamorato, che ha “una faccia che
ricorda il crollo di una diga”. Pura poesia che arriva diritta all’anima, “Atlantide” è uno dei brani
che cambiano per sempre la storia della musica ed inventano ed aprono nuove strade e sono di
ispirazione per i cantautori a venire.
In “Ipercarmela” la voce di De Gregori è più chiara, a tratti aspra. La storia di due emigranti è
fotografata in questa bella canzone che ha un lungo interludio – ritornello che ricorda un canto e
al tempo stesso un lamento antico. I pensieri di questi due personaggi riempiono le strofe, e sono
pensieri quieti e disperati , silenziosi e con pochi sogni.
“L’ultimo discorso” ha un andamento ritmato , e rimanda all’ascoltatore al momento politico
storico in cui De Gregori fu vittima di un “processo politico” . Durante un concerto al Palalido di
Milano, venerdi 2 aprile 1976, un drappello di persone appartenenti, forse, ad autonomia operaia,
interruppe l’esibizione e si appropriò del palco, muovendo accuse deliranti al cantautore,
minacciandolo ed invitandolo al suicidio.
Anche “Festival” muove da un ricordo. E’ messa in poesia, la fine di Luigi Tenco, che morì durante
il Festival di Sanremo nel 1967. Parole delicate, pensose, dure, se rivolte a chi era intorno al
cantautore. “Angelo che girava senza spada” è uno dei termini usati da De Gregori, che dipinge un
Ritratto intenso e commovente.
Chiude l’album “Santa Lucia”, bellissimo brano, un inno laico, colmo di storie di scarpe bucate e
solitudini, e quanto è bravo De Gregori a parlarci di questa parte di mondo che vive in silenzio la
sua malinconia. Brano amatissimo da Lucio Dalla, è oggi proposto in concerto dal cantautore
romano in forma di omaggio al suo amico bolognese . Infatti De Gregori chiude questa canzone
con le note di “Come è profondo il mare”, che lega e suggella con le sue note e i suoi significati
un’amicizia che non finirà mai.

 


 

RAGE AGAINST THE MACHINE – RAGE AGAINST THE MACHINE

4722242.JPG

Ci sono album straordinari che rivelano o lasciano perlomeno presagire, perfino dalla copertina, la cifra stilistica e formale della musica espressa al loro interno, il tenore generale del progetto nonché la materia stessa dalla quale si dipanano. “Rage against the machine” è indubbiamente uno di questi: nello scatto che valse al fotografo Malcom Browne il premio Pulitzer nel 1963, era stata impressa l’immagine di un monaco buddista che si toglieva la vita dandosi fuoco. Questa foto inquietante, tragica, decisamente scioccante fu scelta dalla band per la cover del loro album d’esordio. “Rage against the machine” sembra proprio scaturire da questa scelta, conformarsi ad essa anche se non risulta affatto tragico, laddove invece è rabbioso, inquietante, minaccioso, imponendo così all’ascoltatore un impegno assiduo affinché possa prima affrontarlo, esserne sedotto e sentirsene infine pienamente appagato. D’altronde per scoprire e recepire i piaceri offerti dall’arte qualcosa sarà pur necessario scontare. Tom Morello alle chitarre, Tim Commerford al basso, Brad Wilk alla batteria e il cantante Zack de la Rocha hanno firmato con “Rage against the machine” uno dei più preziosi, complessi capolavori degli anni ’90, fondendo in un crossover  stupefacente tutta una serie di segnali provenienti da zone e pratiche musicali apparentemente lontane tra loro, lontane nel tempo e nell’espressione formale. Il rap, l’hip pop, il post-punk, l’heavy metal e l’hard rock, così come il funk ed altre forme generate dall’osmosi di vari fenomeni ed incontri musicali venuti a contatto e amalgamatisi negli anni ‘90, convivono perfettamente nei brani di questo disco che gli stessi Rage Against the Machine, nelle note di copertina, dichiarano essere stato inciso senza aver mai fatto ricorso a suoni campionati, tastiere o sintetizzatori. Questa è una indicazione importante per accostarsi all’album, per poterlo apprezzare, assimilare e decodificare ed altrettanto importante è chiarire subito che sia singolarmente che come band, i Rage Against the Machine sono attivisti politici schierati su vari fronti ed impegnati in prima persona in lotte sociali, ambientali e animaliste. L’album è esplosivo dalle prime note di ‘Bombtrack’ fino a ‘Freedom’ che, dopo 53 minuti di pura adrenalina e sferzanti rovesci di suono, chiude splendidamente un progetto articolato su dieci tracce. La sezione ritmica possiede una compattezza e densità tali da tutelare appieno Tom Morello, permettendogli così di librarsi con tranquillità nelle sue acrobazie sulla tastiera dello strumento. Deciso emulo di quel Jeff Beck tecnicamente più sperimentale ed attratto dalle piroette di un Jimmy Page da tempo palesemente compenetratosi nel suo background, Morello incrementa le sue capacità ed origini stilistiche sfruttando una tecnologia ed una estetica che lo pongono nella band in un ruolo spesso dominante. Ascoltando la traccia numero due, ‘Killing in the name’, la dinamica precedentemente descritta dell’interazione tra una sezione ritmica spietata e una chitarra che squittisce, gracchia, tuona ed inferisce diviene chiara, lampante. Siamo difronte ad uno dei brani chiave dell’album: tutto è stato organizzato per fornire a Zack de la Rocha un tappeto perfetto su cui poggiare la sua voce che si libra tra canto, parlato, interventi da puro rapper, parole urlate, enfatizzate oppure declamate.  L’interscambio tra i quattro musicisti è pienamente quanto, follemente riuscito, l’amalgama funziona a meraviglia, un’ondata di ritmo irrefrenabile costringe il nostro corpo ad un moto cadenzato cui non è possibile resistere, non si tratta di un incontrastabile trasporto che induce alle movenze di un qualsivoglia ballo, è piuttosto un rimando, un ritorno irresistibile a riti tribali, a movenze arcaiche. La traccia numero tre, ‘Take the power back’ possiede il tessuto letterario della canzone non di protesta, ma di accusa: il bersaglio sono gli USA, la politica interna americana, la retorica figura dello zio Sam, il titolo poi la dice tutta: “Riprendiamoci il potere”. ‘Wake up’, traccia numero sette, inizia con un qualcosa che immediatamente rimanda alla ‘Kashmir’ dei Led Zeppelin, la citazione per quanto neanche troppo camuffata è evidente e rappresenta probabilmente un omaggio, un riconoscimento. Il testo cita Martin Luther King, Cassius Clay, Malcolm X, la guerra del Vietnam, parla di network che lavorano per mantenerci inerti e quindi incerti, oppure viceversa. ‘Wake up’ parla poi di Movimenti che ciclicamente nascono e scompaiono, della miseria in cui si trovano migliaia di senza lavoro, insomma con una operazione di miscelamento anche del tutto autonoma e personale di tutti questi elementi è facile ipotizzare le indicazioni e le coordinate risultanti, il nucleo centrale della critica. Nei panni di Neo, in una delle ultime inquadrature di “Matrix”, Keanu Reeves è all’interno di una cabina telefonica, nell’attimo in cui poggia la cornetta nell’apposito sostegno parte una musica che diviene perfetto sostrato del film, quel brano  è ‘Wake up’ e la parentela con il film di Lana e Andy Wachowski è decisamente stretta. Una delle componenti del perfetto equilibrio di questo lavoro risiede proprio nella riuscita osmosi tra le motivazione che hanno prodotto i testi e la capacità di tradure questi ultimi in materia sonora e pulsante. “Rage against the machine” è un album monolitico, apparentemente ha una sola direzione, un solo scopo eppure, all’interno di una musica che ricrea continuamente se stessa e se stessa medita, le sfumature non mancano e sono offerte anche e soprattutto dall’abilità di Morello e Commerford di alleggerire a volte atmosfere dense, gravi con delle sonorità che soltanto le loro abilità quasi certosine possono produrre ed è chiaro che l’aver voluto sottolineare l’assenza di tastiere, synt o campionamenti vari abbia un senso più che giustificato. Per festeggiare il ventesimo anno dall’uscita dell’album, nel 2013 è stato pubblicato un cofanetto decisamente celebrativo, quanto prezioso: “Rage Against the Machine XX”. Composto da due CD, due DVD ed un vinile, il box raccoglie oltre all’edizione rimasterizzata dell’album arricchito di tre tracce live riprese dai singoli originali,  un imperdibile CD con dodici demo dei brani che confluiranno “Rage against the machine”. Nei due DVD troviamo invece le immagini di un film che documenta il concerto al Finsbury Park di Londra del 2010: “The battle of Britain”. Nell’altro DVD è documentata la prima apparizione pubblica della band il 23 ottobre del 1991 in California. Entrambe i DVD contengono anche video promozionali e delle  live clips, non mancano poi un libro che assieme ad un poster arricchiscono il già sontuoso cofanetto.

Tag: ANALOG, every day, giradischi, MASTER TAPES, MUSIC, podcast, vinili, vinyl

Ajax Loader