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Legacypedia 4.0 – settimana #25

07 Aug 2015

IVAN GRAZIANI – PIGRO

pigro

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Gli anni ’70 sono stati per la musica anni preziosi, ricchi di innovazioni e fermenti che hanno cambiato per sempre il modo di approcciarsi al mondo delle note, rendendolo un cosmo infinito. In Italia, molti sono i fiumi che hanno apportato linfa vitale al mare magnum della musica nostrana.
Accanto al pop  più tradizionale e commerciale, forse un po’ stagnante e ripetitivo, si sviluppava il cantautorato  politico di De Gregori, Guccini, Lolli, Battisti e Mogol aprivano nuovi orizzonti nel pop rendendolo personale, moderno e pregiato, il progressive scopriva band come  Le Orme, La PFM, il Banco. Questi nomi sono un parziale esempio del  movimento profondo che portava alla luce perle che ancora risplendono per creatività, poesia, bellezza. Tra questi artisti uno spazio è dedicato ad Ivan Graziani, che con Stefano Rosso e Rino Gaetano si occupò di tematiche sociali usando toni ironici, servendosi del sarcasmo per nascondere l’amarezza e la disillusione, frustando le nostre piccolezze con parole graffianti e irrisorie. Ma anche capaci di veri gioielli intimisti, riuscendo a parlare d’amore usando parole scarne, trovando spazi di tenerezza nelle  ombre, nelle eco di un suono o del senso di una frase suggerita. Ivan Graziani aggiunse poi a queste esplorazioni una sua istintiva propensione al rock che ha fatto scuola e che ha aperto la via ad artisti che oggi riempiono stadi con la loro musica. Dopo una lunga gavetta iniziata sui banchi di scuola, l’attività di session man grazie al suo talento alla chitarra,  che lo vide lavorare con Battisti, PFM, Venditti, Ivan Graziani approdò alle sue prime esperienze da solista, e si guadagnò la sua fetta di cielo. Con l’album “Lupi” il grande pubblico e la critica si accorsero di lui, poi nel 1978 l’album “Pigro” lo consacrò definitivamente come cantautore rock blues della scena italiana. L’album è legato da un senso comune, da un messaggio, un filo rosso che collega tutte le tracce. Il tema è la pigrizia, come vedremo in seguito declinata in mille modi: immobilità, paura, indifferenza, ignoranza, ottusità, sentimenti che ci legano a terra e ci impediscono di vivere la vita nel suo  senso più profondo, ci impediscono  di esplorarne le forme ed i colori.

Apre il disco “Monna Lisa”, rock essenziale, grintoso, che racconta la storia di un ladro che ha intenzione di rubare la Gioconda . La voce di Graziani si muove su tonalità altissime, come era sua prerogativa, e mentre le chitarre acustiche sostengono magistralmente il ritmo slanciato della canzone, la storia del ladro tapino va avanti , e ci mostra un malfattore che non capisce il francese, e che se la prende comoda “restando un po’ a pensare”mentre la polizia lo ha circondato.

“Sabbia del deserto” è  aperto dal sax di Claudio Pascoli . Una canzone country che racconta la solitudine provincia, piccola, oscura, senza sbocchi dove uno “tanto non sarà mai un artista”. La sabbia dell’immobilità, sottile, si insinua nella vita di tutti i giorni fino a chiuderti gli occhi e ad impastoiarti tra le feste comandate a casa dei parenti, nel sesso trafelato in macchina e la mancanza di orizzonti. Come tutte le canzoni del disco, il ritmo è sostenuto, smagliante, una combinazione di groove e musicalità che poggiano su testi di grande qualità, capaci di profonda introspezione.

“Paolina” è una canzone che sa di amore, di solitudine, di tenerezza. Protagonista una timida donna sola che non sa come si vive e non trova il coraggio di amare, di regalarsi e di prendersi la vita. Il nome di lei ripetuto all’infinito ci rimanda alla malinconica partecipazione  dell’autore a questa vita che non si è mai schiusa.

Il rock blues di “Fango” ha un testo duro, le parole sono scelte con cura e sono sgraziate, oscure, sgradevoli. Un assassino di 21 anni che vive in una terra dimenticata . Vive nel fango, questo fiore venuto male, che dovrebbe scappare ma che resta lì, imprigionato nelle giostre, dove lavora e che sono diventate la sua prigione. L’effervescente “Pigro” continua il suo esemplare compito di raccontare, e questa volta tocca ai falsi colti, ai benpensanti a chi vive nelle pastoie della sua normalità e non sa riconoscere nulla che sia a più di un metro dal suo naso.

“Al Festival slow folk di b-Milano” ironizza su certi ambienti musicali, snob, di mentalità chiusa che l’autore avrà senz’altro conosciuto in prima persona. Ingegnoso e di grande modernità. Il bellissimo arpeggio delle chitarre acustiche , suonate dallo stesso Graziani, aprono l’intensa “Gabriele D’Annunzio”. Nome da poeta portato da un contadino che non si lava, spione, piccolo piccolo, solitario, uniche sue amiche le donnine dei giornaletti porno che chiama con nomi teneri. Ha voglia di amare, Gabriele, ma non gli capita l’amore, e allora si arrangia come può, patetica figurina , che ha sposato una virago che lo picchia e lo minaccia tutte le sere, povero Gabriele D’Annunzio, con un nome così grande ed una vita così piccola. “Scappo” chiude l’album. Un ragazzo fugge tra l’indifferenza totale della sua famiglia, e fugge da sua madre, che lo allontana dalle donne e lo castra, ciccione ed eunuco. Evviva l’ignoranza, caldo riparo dai mali del mondo. Il sax commenta sullo sfondo, la band – Hugh Bullen al basso, Walter Calloni alla batteria, Claudio Maioli alle tastiere – si muove come un orologio, perfetto scandisce il ritmo che avvolge l’ascoltatore. La fuga fallisce al primo bar, il ragazzo non ha i soldi per il cappuccino e si copre la testa aspettando la giusta punizione. “Scappo” è anche un’esortazione a reagire, perchè nella melma ci siamo tutti, e ci si mette anche lo stesso cantautore,  perchè il maiale ritratto da Mario Convertino in copertina ha gli occhiali rossi di Graziani. Come a dire : nessuno si salva, si salvi chi può.


SYSTEM OF A DOWN – SYSTEM OF A DOWN

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Trattasi dell’album d’esordio di una delle bands più interessanti emerse dalla scena alternative metal californiana di Los Angeles, a cavallo del nuovo millennio, su etichetta American Recordings (la stessa degli Slayer, di Johnny Cash e degli Jayhawks). Rick Rubin si accorse subito di loro e li volle co-produrre, soprattutto per la loro componente etnica (sono tutti di origine armena) che caratterizzava e distingueva il loro suono da quello di bands di matrice analoga, ma anche per la presenza e le influenze da generi più disparati, tra cui il folk, il punk hardcore, il cabaret e perfino qualche scampolo di jazz. Da tale formula scaturisce un particolare stile “sui generis” con inaspettati cambi di tempo e ritmo e pause improvvise. Il cantante della band Serj Tankian) intervistato al tempo, ben sintetizzò il suono dell’album come “fast (veloce), heavy (pesante) and crazy (pazzoide)”. I singoli estratti dall’album sono “SUGAR” (traccia 3) e “SPIDERS” La prima traccia, “Suite-Pee” parla in generale delle inutili morti causate (non proprio indirettamente) dalle varie religioni e dove l’impatto con lo stile musicale della band è immediato, a cominciare dal jingle iniziale creato con l’uso di armonici della chitarra di Daron Malakian. Segue “Know”, brano molto percussivo e ben bilanciato che parla della sensazione d’intrappolamento tipica del nostro tempo, espressa attraverso un testo a tratti davvero poetico. La terza traccia, “Sugar”, un brano che parla di abuso e schizofrenia  e che presenta uno spaccato della parte perbenista della società americana; “Suggestions” (traccia 4) pone l’attenzione sul rapporto servo-padrone in generale, ed ha un incedere davvero adrenalinico. A questo punto si arriva a “Spiders” (traccia 5), l’unica ballad dell’album: testo davvero poetico con la musica che diventa sempre più intensa fino a sfociare in un climax quasi mistico, a cominciare dalla vocalità di Tankian. Il brano parla di sogni e controllo mentale. Con la traccia seguente, “D-Devil” (traccia 6), riesce fuori la loro parte più folle che si rispecchia nel testo come negli arrangiamenti frenetici ed ossessivi che si articolano in una breve ed intensa marcetta che schernisce la religione. La settima traccia, “Soil”, parla in generale del male che le persone compiono, e dal punto di vista strumentale è molto diversificata e godibile. Segue “War?” (traccia 8), brano incentrato sulla stupidità di qualsiasi guerra di religione attraverso una prima parte furiosa, seguita dall’intervento delle tastiere che ne rallentano i tempi prima del gran finale. “Mind”, la nona traccia, è la più lunga dell’intero album e, con un incipit soft, uno stop e una ripartenza al fulmicotone, con sviluppi sorprendenti. “Peephole” (traccia 10) possiede delle melodie che richiamano alla mente il medio-oriente in maniera lampante, oltre che un bel testo ottimamente interpretato. La traccia seguente, “CUBErt” (traccia 11), è simile a D-Devil per il grado di follia che si percepisce. “Darts” (traccia 12), è il gioiellino dell’album, dove la voce di Tankian si esprime in tutta la sua poliedricità. La tredicesima e ultima traccia, “P.L.U.C.K.” parla del genocidio armeno da parte dei turchi nel 1915, tragedia storica di cui molti non sono a conoscenza per via della perpetuata censura da parte del regime turco fino ad oggi. In questo brano il gruppo sfoga tutta la rabbia del proprio popolo sterminato, attraverso attacchi strumentali davvero furiosi. Questa versione contiene anche delle “bonus tracks”, ossia 4 tracce del medesimo album, suonate dal vivo all’Irving Plaza di New York nel gennaio del 1999. In conclusione, un grande album d’esordio, con il quale i System Of A Down si sono fatti conoscere al mondo attraverso un suono, certamente ancora ruvido, ma assai originale.

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